Michieletto per la prima versione scenica in Italia di Mass riletta come metafora delle divisioni del nostro mondo Matheuz dirige la partitura un po’ opera e un po’ musical che racconta la fede e i dubbi dell’uomo tra classica e rock
Rovine. Rovine di una civiltà che ha costruito muri. Tanti restano ancora drammaticamente in piedi, è vero. Ma molti sono crollati, lasciando un cumulo di macerie. Sulle quali provare a ricostruire. Come capita sempre, dopo le grandi crisi – ricordiamo le macerie del Teatro alla Scala subito dopo i bombardamenti su Milano? un attimo e il teatro tornò come prima. E le macereie del Muro di Berlino? oggi sono pezzi da museo. Macerie. Rovine. Sulle quali costruire il futuro. Ce lo racconta la storia.
Non solo. Lo fa anche l’arte. Perché l’immagine potente che chiude Mass di Leonard Bernstein è un’immagine che prova a far intravedere una luce. Una speranza che può nascere da quelle rovine. Messe lì, tra altre rovine, quelle antichissime di Roma, delle Terme di Caracalla. «La cornice ideale per questo “pezzo teatrale” come lo definiva il suo autore. Perché Mass non è un musical, non è un’opera lirica, non è un oratorio, ma è un po’ tutto questo» riflette il regista Damiano Michieletto quando si sono spenti da poco gli applausi che hanno salutato la prima rappresentazione scenica in Italia di Mass – ce n’era stata una in Vaticano, in Aula Paolo VI, voluta da Giovanni Paolo II per il Giubileo del 2000. Un pezzo corale, dove si intrecciano ritmi e generi diversi, commissionato a Bernstein per l’inaugurazione nel 1971 del Kennedy center for performing arts di Washington da Jacqueline, vedova di John, ma allora già signora Onassis.
Il compositore (alla prima a Roma c’era la figlia Nina) pensò a una messa, come dice il titolo inglese, dove il testo latino della liturgia (accanto ai cinque pilastri dell’ordinarium, Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus e Agnus Dei risuonano anche il Confiteor, il De Profundis, il Pater Noster) si fa teatro e si intreccia con le parole (in inglese) della vita. Le parole della crisi. Perché il Celebrante cerca di celebrare il rito, ma è continuamente interrotto dal popolo degli street singers. Che lo contestano, lo provocano, lo mettono in crisi. Al tempo fece scandalo (indagò l’Fbi e il presidente Nixon disertò la prima), in un tempo in cui il mondo era ancora scosso dalle contestazioni del ’68 e convalescente per le ferite della guerra in Vietnam.
«Mass spazia dalla polifonia al jazz al rock. Parla di libertà, di solidarietà, di fratellanza, di comunione. È una riflessione sulla vita nella quale Bernstein ha voluto mettere tutto ciò che poteva, le suggestioni musicali più diverse. E solo lui in quel momento storico se lo poteva permettere. Il dubbio, la crisi penso rappresentino il cure di Mass, il messaggio più forte che Bernstein ha voluto mandare scrivendo questa partitura. Non per nulla il culmine è nella grande scena in cui il celebrante interrompe la liturgia, crolla e rinnega il suo credo spogliandosi dei paramenti scari. Usando diversi generi musicali penso che Bernstein abbia voluto dire che non ci sono differenze tra polifonia e rock, tra sinfonica e blues» racconta Diego Matheuz. Per il direttore d’orchestra venezuelano «quando apri la partitura resti impressionato dalla complessità della scrittura che tiene insieme gli opposti. Poi inizia a dirigerla e tutto funziona magnificamente. Mass è un pezzo pieno di energia. Se riesci a mantenere questa energia anche nei momenti più pacati, cantabili ecco che hai trovato quel filo rosso che tiene insieme le grandi differenze presenti nella partitura» racconta Matheuz che ha diretto orchestra e coro dell’Opera di Roma, i giovani del Fabbrica young artist program e quelli della Scuola di canto corale del Costanzi, gli street singers (il meglio dei performer del musical in Italia) ai quali si sono uniti i danzatori del Corpo di ballo dell’Opera. Un esercito di artisti capitanato da Markus Werba, il Celebrante.
«Una comunità che si ritrova intorno ad un tavolo con un desiderio di condivisione, di pace, di fratellanza e di serenità» racconta Micheletto che ha firmato la sua prima regia a Caracalla dove l’Opera di Roma è tornata per la stagione estiva dopo lo stop di due anni imposto dal Covid. «Fare Mass qui, portarla fuori dalla cornice di un boccascena teatrale offre allo spettacolo il valore di un evento collettivo». Una comunità che Michieletto mette in scena. «Un racconto che parte con la forza di un musical sfrenato, ma dove ben presto si rompe qualcosa perché il celebrante non riesce a celebrare la messa, continuamente interrotto dagli steet singers che lo provocano, mettono in dubbio la sua fede, mandandolo, inevitabilmente, in crisi. E in questa crisi c’è la crisi di una civiltà che cerca una spiritualità e non sa più dove ritrovarla» racconta il regista veneziano che ha voluto sul palco tre grandi gru disegnate da Paolo Fantin.
«Perché il popolo costruisce un muro. Alza una barriera che è l’esatto contrario della comunione che viviamo nella liturgia eucaristica» spiega il regista che ha riletto la grande pagina di Bernstein come una metafora del nostro tempo. «I tanti muri di oggi, dal Messico alla Palestina passando per l’Ungheria. Chi deve difendere la propria ricchezza erige muri. Ma i muri li portiamo anche dentro di noi: sono le nostre paure, i nostri pregiudizi, rappresentano l’impossibilità di comunicare, la volontà di sottrarre agli occhi quello che c’è dall’altra parte, per chiudersi nelle proprie sicurezze».
Li vediamo nei video di Filippo Rossi, mentre il dolore di chi è ai margini rivive nelle coreografie di Sasha Riva e Simone Repele. «Unione e comunione sono le parole che identificano al meglio questo grande lavoro, facendo sintesi della sua complessità. E la comunione è la cosa più bella, la comunione tra tutti. Lo dice bene il corale finale che viene cantato da tutta la compagnia, all’unisono, un momento dove si appianano le differenze. La gente forse si aspetterebbe un finale grandioso, tipo la Seconda di Mahler, invece Bernstein ci riporta nel silenzio da cui tutto era iniziato. E le differenze si azzerano, le barriere e i muri crollano» spiega Matheuz. «Ma prima – interviene Michieletto – il il Celebrante rivive su di sé alcune tappe della vita di Cristo, specie i momenti della Passione: schernito, messo in croce, alla fine rinasce a nuova vita. E il grande muro viene distrutto, restano solo le macerie». Sulle quali (ri)costruire il futuro.
Nelle foto @Fabrizio Sansoni Mass a Caracalla
Articolo pubblicato in gran parte su Avvenire del 3 luglio 2022