Verona apre la stagione numero 99 con l’opera di Bizet fondendo i due allestimenti del 1995 e del 2009 del regista in uno spettacolo all’ennesima potenza e applauditissimo Dirige Marco Armiliato, Clementine Margaine è Carmen con lei Brian Jagde, Karen Gardeazabal e Luca Micheletti
Non sai più dove guardare. Se a destra del palco, dove un fotografo scatta un ritratto di famiglia con una vecchia macchina fotografica (con tanto di telo nero per filtrare la luce) posizionata su un cavalletto. O in proscenio dove un uomo attraversa il palco spingendo una bancarella su ruote con la scritta Libri (e piena di libri, naturalmente) dopo che, nel senso opposto, era passato un carretto trainato da un asinello. Oppure in fondo, giusto al centro della scena, dove alcune donne contrattano il prezzo di pezze di tessuto con un venditore ambulante che le ha messe in bella mostra sul suo banco. Poi ti accorgi che ai tavolini di un locale, protetti dal sole da gradi ombrelloni, signori in abito bianco bevono qualcosa e corteggiano le ragazze mentre due suore affrettano il passo a testa bassa. Un battere di tacchi ed ecco che a destra e a sinistra, proprio sotto quello che sembra un accampamento fatto di tende gitane, ballerini e ballerine si lanciano in passi di flamenco. Ma è un attimo perché da destra entra un carro trainato da un cavallo, porta in scena Micaela – l’abito azzurro e la treccia bionda, filologicamente in sintonia con il libretto di Meilhac e Halévy – che subito si confonde tra la folla. L’occhio, provando a seguirla, si perde in cima alle gradinate, nelle architetture delle case di Siviglia che lasciano poi spazio alle montagne. Mentre la tromba annuncia il cambio della guardia, entra un gruppo di soldati (nemmeno a dirlo i comandanti sono a cavallo) che prende le consegne dalla guardia che smonta. E i bambini giocano alla guerra, ad imitare i militari, marciano con la testa alta come dei piccoli soldati. Uno di loro corre tra la gente, avrà si e no due anni.
Tutto succede nei primi minuti dell’opera. Vertigine che apre, in un caleidoscopio di colori e scene e controscene, la Carmen di Georges Bizet, titolo inaugurale della stagione numero 99 dell’Arena di Verona. E non poteva che essere targata Franco Zeffirelli questa Carmen in cinemascope – l’impressione è proprio quella di un grande schermo con un campo lungo che abbraccia tutta la vita che c’è sulla piazza di Siviglia, mentre ognuno poi può zoomare sul particolare che più lo cattura. Uno Zeffirelli all’ennesima potenza sul palco del più grande teatro lirico sotto le stelle. Perché quello che ha aperto il festival 2022 (in cartellone sino al 4 settembre Aida, Nabucco, Traviata e Turandot) è uno spettacolo che unisce, fondendoli insieme, gli allestimenti del maestro del 1995 (fu in quell’occasione che Zeffirelli firmò la sua prima regia per l’Arena) e del 2009 (dove il regista, per quanto possibile alla sua natura di grande scenografo attento al minimo dettaglio – scuola viscontiana – cercò di asciugare il suo kolossal). Non solo, mette sul palco elementi scenici che il regista e scenografo, scomparso nel 2019, aveva disegnato, ma mai fatto realizzare. Un lavoro curato da due storici collaboratori del maestro, Carlo Centolavigna che ha ripreso in mano tutti i bozzetti di Carmen e Stefano Trespidi che ha rimontato la regia mentre i costumi (molti rifatti ex novo) sono quelli di sempre di Anna Anni, come scrive Pippo Zeffirelli ricordando che l’Arena «è un luogo he comprende e ama ancora l’arte di Franco Zeffirelli e che lui ha molto amato».
L’effetto di questo Zeffirelli elevato alla potenza di se stesso? Una grande abbuffata di teatro, di persone, di case di Siviglia e di montagne, di oggetti, colori e danze. Capace di frastornarti, certo, ma di portarti dentro l’opera – il dramma di Carmen in questi caso, ma succede anche con Aida, Traviata, Turandot, tutti kolossal in cinemascope in cartellone quest’anno con la regia di Zeffirelli, protagonista assoluto della stagione areniana 2022 – e di non lasciarti più. Tutto è amplificato, tutto è moltiplicato – e chi ha ripreso lo spettacolo di Zeffirelli non si è risparmiato, ha giocato proprio la carta dell’eccesso che, però, non diventa mai kitsch. In scena, tra interpreti, coristi, voci bianche, ballerini, figuranti… ci sono più di duecento persone, senza contare l’orchestra in buca e i tecnici dietro le quinte. Ad applaudirli in 13mila, bermuda e infradito sulle gradinate più esposte al sole del giorno, smoking e abito da sera tra le poltrone di platea.
Tutto è esagerato… anche i tempi perché si esce dall’Arena ben oltre l’1.30 di notte (la locandina dà le 21.15 come orario di inizio): l’omaggio (doveroso) ai cento anni di Renata Tebaldi ed Ettore Bastianini presentato (con tanto di ascolto di arie, il Numi pietà dall’Aida e il Balen dal Trovatore) a inizio serata dal sovrintendente Cecilia Gasdia fa slittare l’inizio dell’opera alle 21.40, i due intervalli durano 25 minuti, il cambio di scena tra terzo e quarto atto prende una decina di minuti, riempiti da una sfida a colpi di passi di flamenco (con il tifo del pubblico che esplode) tra i ballerini (che sono quelli della compagnia di Antonio Gades che ripropongono le coreografie del Camborio e Lucia Real) schierati sui fronti opposti del proscenio, così il quarto atto inizia quando è già suonata l’1. Ma il pubblico applaude e tiene il tempo sulla marcia dei toreri del quarto atto… un battimani, insistente, ritmato, festoso, che sarebbe sacrilegio in un qualsiasi teatro d’opera, ma non in Arena dove tutto è possibile. E dove è questo il genere di spettacolo che la gente vuole (e deve) vedere.
La Carmen, questa Carmen lo conferma. E lo pensi subito, in quei primi minuti in cui lo sguardo si perde tra i mille particolari dello spettacolo che si guadagna subito, appena i tessuti rosso/arancio/giallo che fungono da sipario si aprono, un applauso. Il kolossal in Arena funziona sempre. Di più, il pubblico lo vuole, lo applaude ripetutamente a scena aperta. Entusiasta. E questo deve avere. Ci saranno altri tempi e altri luoghi per le regie più intellettuali, quelle che scavano a fondo nel testo letterario e musicale dei melodrammi e cercano di portarli vicino alla nostra sensibilità. Cosa che, comunque, non è detto non faccia lo spettacolo di Zeffirelli. Anche perché il messaggio di Carmen è lì evidente, l’incapacità di accettare la fine di un amore, la pretesa che l’altro sia nostro possesso… e dunque ecco l’omicidio di chi non sa accettare che la libertà (che in Carmen hanno molte sfumature, perché la zingara la declina in vari modi, anche in quelli meno ortodossi) è un bene troppo grande per essere messo n gabbia. Oggi lo chiameremmo femminicidio… e vederlo in scena non è per nulla catartico, anzi, fa male ogni volta che si arriva a quel tragico finale con Carmen pugnalata da Don José, riversa sulla scale all’ombra di una grande croce, sulla piazza deserta le case di Siviglia e le montagne a fare da testimoni muti e impotenti del dramma. Immagine che fa centro, immagine forte a dire – lo dice Zeffirelli – che il perdono (quello offerto da Cristo in croce a chi lo uccideva) non è utopia, ma necessità, oggi più che mai urgente, per spegnere odio e guerra e fermare la reazione a catena della violenza.
Messaggio potente che ti porti a casa dopo quattro ore in cui Zeffirelli – e tutta la squadra che oggi rimette in scena Carmen – ti ha tirato dentro nel vortice di colori e suoni che è il suo kolossal sulle note di Bizet. E va bene così in Arena. E si applaude convinti, a più riprese, dopo ogni aria e duetto, anche un’esecuzione musicale non eccelsa con tempi un po’ troppo comodi, che rischiano di appiattire troppo il tutto, scelti da Marco Armiliato che ha, però, il pregio di tenere saldamente le redini del discorso musicale per tutte le tre ore di durata dell’opera (bene il coro di Ulisse Trabacchin e le voci bianche Alive di Paolo Facincani), riprendendo (più volte) al volo le corse in avanti (o i rallentamenti) di alcuni interpreti. Sul leggio del direttore d’orchestra, purtroppo, non c’è la versione in stile opera-comique, quella originariamente pensata da Bizet, con i recitativi parlati che si alternano ai numeri musicali, ma la revisione con i recitativi accompagnati dall’orchestra, cosa che sicuramente appesantisce il tutto, rendendo meno snello il fluire della narrazione.
Come sempre in Carmen i più applauditi sono Micaela ed Escamillo, lei ha un duetto (quello tenero con Don José nel primo atto), un aria (la grande aria Je dis quen rien ne m’epouvante) e un finale di atto (il terzo, quando richiama José ai suoi doveri di figlio mentre la madre sta morendo), lui il suo celebre Toreador che infiamma la taverna del secondo atto, un duetto e un finale d’atto (il terzo) e una promeande, un passaggio sulla piazza di Siviglia dove promette a Carmen di vincere la corrida. Lei è Karen Gardeazabal, soprano messicano, non sempre impeccabile, ma applaudita come tutte le Micaela. Lui è Luca Micheletti – attore e regista di prosa, oggi cantante lirico con un’agenda pienissima – che offre la sua bella pasta vocale di baritono e la sua presenza scenica incisiva a Escamillo. Ma festeggiatissima è anche Clementine Margaine, Carmen scenicamente e vocalmente non travolgente, voce che non sempre “passa” (e arrivare sino all’ultima gradinata è impresa complessa), forse più preoccupata di ricamare il canto con raffinatezze che rischiano di perdersi piuttosto che dell’intonazione in alcuni passaggi di registro. Brian Jagde è un collaudato e sempre affidabile Don José al quale non mancano squillo ed eleganza e forza – manca, forse, un po’ di carisma scenico, una presenza che sappia calamitare lo sguardo, cosa che, invece, avviene nella toccante scena finale. Daniela Cappiello e Sofia Koberidze, Frasquita e Mercedes (convincenti nella lettura delle carte del terzo atto), Nicolò Ceriani e Carlo Bosi, Dancairo e Remendado, sono i contrabbandieri amici di Carmen. Impeccabili e ben centrati lo Zuniga e il Morales (i militari della storia) di Gabriele Sagona e Biagio Pizzuti.
Loro ci accompagnano sulla piazza di Siviglia dove siamo appena dietro i soldati che cercano d sedare la lite tra le sigaraie, tra Carmencita e la Manuelita. Oppure nella taverna di Lillas Pastia dove Carmen danza per Don José e lui le ricorda quel fiore che lei gli aveva gettato in viso e che gli ha fatto compagnia nei due mesi di prigione. O sulle montagne tra i contrabbandieri (bellissimo il blu della notte che avvolge le rocce nelle luci di Paolo Mazzon). E nella piazza di Siviglia, assolata. E anche qui non sai dove guardare, ai venditori ambulanti che offrono bandierine spagnole per tifare Escamillo o all’omino che offre arance, ai toreri che sfilano vestiti inappuntabilmente per la corrida o ai cavalli bianchi che scalpitano tra la folla. Zeffirelli all’ennesima potenza. Perché così vuole l’Arena. Ed è giusto che abbia il suo kolossal.
Nelle foto @EnneVi Carmen all’Arena di Verona