A Firenze il Maggio musicale inaugura con l’opera di Gluck diretta da Daniele Gatti e con la regia essenziale di Audi Azione danzata per raccontare la follia di un uomo geloso
Gli occhi spalancati, a fissare il vuoto. In ginocchio, disarmato e senza più forze. Intorno a lui (come dentro, d’altra parte) si è fatto il vuoto. Vuoto lo spazio che si era riempito di danza, una partitura di movimenti a contrappuntare quella di note. Pazzo, Orphée. Pazzo d’amore. E non per modo di dire. Pazzo vero, con la mente altrove. Forse rimasta in quel limbo fatto di paura e inquietudine, di nero senza luce dove è andato a riprendere la moglie per strapparla alla morte. Piegato dai rimorsi, perché (forse) è stato lui ad ucciderla, Euridice è morta per colpa sua. E allora, come chi ha combinato un danno (irreparabile) è disposto a tutto per rimediare. Anche a scendere negli abissi. Preda di visioni che in quel buio lo hanno messo di fronte al male (e a se stesso) e che ora gli riempiono la mente. Gli ingombrano gli occhi, spalancati sul nulla. Orphée è in ginocchio. Solo. Mentre la musica, con una sinistra dissonanza su una pantomima che parla di gelosia e di violenza, ha appena celebrato il trionfo dell’amore, di quel sentimento la cui «chaine agréable est préférable a la liberté». Una «dolce» catena «preferibile alla libertà» che ora lo lega. Lo stringe nella sua morsa. Inesorabile.
Immagine nitida e abbagliante, esteticamente compiuta nella sua asettica perfezione, bella di una moderna classicità. Ma inquietante, indubbiamente, di un’inquietudine che ti resta attaccata addosso mentre ti martella in testa quell’«est préférable a la liberté». Suggello, quello della mente altrove di Orphée, messo dal regista libanese Pierre Audi all’Orphée et Euridice di Christoph Willibald Gluck (in francese, versione di Parigi del 1774 mai andata in scena a Firenze) che ha inaugurato (quando il calendario segna ancora il mese di aprile) l’edizione 2022, la numero ottantaquattro, del Maggio musicale fiorentino. «Mitologia, amore e fabula» l’ha voluta intitolare Daniele Gatti, per la prima volta sul podio nella sua nuova veste di direttore principale (non direttore musicale, ma la sostanza è quella perché è chiara, chiarissima l’impronta di Gatti, il suo lavorare per progetti) del Teatro del Maggio. C’è la mitologia. C’è l’amore. E c’è la fabula nell’Orphée et Euridice di Gluck. Titolo perfetto, dunque, per aprire il Maggio di Gatti – che tornerà sul podio per un’altra storia d’amore e mitologia, l’Ariadne auf Naxos di Richard Strauss, oltre che per diverse pagine sinfoniche attraversate dal filo rosso del mito, su tutte l’Oedipus rex di Igor Stravinskij, proposta insieme al raro Edipo di Ildebrando Pizzetti.
Titolo insolito Orphée di Gluck diresti pensando al direttore d’orchestra milanese, ai suoi Verdi e ai suoi Wagner, ai suoi Strauss e ai suoi Berg, ma anche ai suoi Mozart e ai suoi Rossini e ai suoi Puccini, così affascinanti nella loro sorprendente anticonvenzionalità. Eppure. Basta l’attacco dell’ouverture per restare abbagliati dalla bellezza. La bellezza della lettura di Gatti dove tutto scorre naturale, anche se non c’è nota che non sia studiata, soppesata, scandagliata e meditata e restituita nella sua palpitante forza teatrale. La bellezza della semplicità. La bellezza della vita. «A un certo punto – racconta Gatti, salutato insieme a tutta la squadra di Orphée da dieci minuti di applausi – a un certo punto mi è venuta voglia di mettere le mani su questa musica, su questo Gluck». Dove il pensiero è azione. Azione ridotta al minimo indispensabile nella narrazione (letteraria e musicale) che racconta la morte di Euridice, la discesa agli inferi di Orfeo per riportarla in vita, lo sguardo fatale di lui (sollecitato da una certa petulanza di lei) che la fa morire di nuovo e il lieto fine con Amore che, nel classico meccanismo del deus ex machina delle tragedie, restituisce la vita a Euridice – che comunque, prima o poi, dovrà morire di nuovo… e allora altre sofferenze, altri pianti, altro dolore…
Orphée – gli occhi spalancati, a fissare il vuoto, in ginocchio, disarmato e senza più forze, solo – forse è impazzito (anche) per questo. Per il carico di sofferenza che, inevitabilmente, l’amore porta con sé. Sembra dire così il finale senza lieto fine immaginato da Pierre Audi. Perché sulla danza che chiude l’opera (fatta di movimenti sghembi che potrebbero stare in qualsiasi delle nostre discoteche) va in scena lo psicodramma (tragico, come i tanti, troppi che accadono ancora oggi nel nascondimento di certe mura domestiche) di un uomo geloso che, però, non si fa scrupoli a tradire. E un cerchio si chiude. Perché l’opera era iniziata così, con un tradimento, Orphée che insegue una donna (che poi scopriamo essere l’Amour – e qui le implicazioni psicologiche si moltiplicano), Euridice che lo scopre e muore di crepacuore… anche se in agguato c’è il dubbio che possa essere una morte violenta.
Inizio e fine concreti. Concretissimi. Terrestri e carnali. Modellati sulla cronaca. In mezzo uno spettacolo dal segno astratto. Dove è il pensiero (che è azione) a dettare il passo narrativo. Che è poi la cifra interpretativa di Gatti, dove la drammaturgia, la teatralità, ma anche la profonda riflessione che le vicende suggerisce nascono, si sviluppano e tornano sulla partitura. Sulle note di Gluck. Che il direttore riveste di suono antico (che non vuol dire er forza filologico, tanto più che gli strumenti originali in buca sono pochissimi, i timpani e le trombe), avvolgente, morbido. Un suono che è allo stesso tempo modernissimo, senza tic da nevrotico ba-rock, capace di farsi sorprendente, inquieto, a tratti “malato” di quella malattia che è la pazzia d’amore. L’orchestra del Maggio risponde magnificamente, intonatissima, in perfetto stile, in sintonia con la lettura di Gatti. Impeccabile anche il coro (preparato da Lorenzo Fratini) che canta in buca e con le mascherine (lo spazio è piccolo e non è ancora tempo di abbandonare la prudenza), dando un colore, una connotazione specifica ad ogni “gruppo” che compare in scena, i pastori e le ninfe, i demoni e le furie, gli spiriti beati e gli eroi.
Che in scena hanno le fattezze dei danzatori di Arno Schuitemaker in uno spettacolo fatto di niente, anche perché va in scena sul palco della sala Zubin Mehta (nella sala grande del Teatro del Maggio si sta rifacendo la torre scenica che sarà pronta per dicembre quando, il 27, Gatti dirigerà Don Carlo), un auditorium, un palco nato per i concerti e che impone ai registi la ricerca di soluzioni senza troppi movimenti di scena. Un fondale sul quale si accampano ombre informi, anime fluttuanti in un limbo in attesa di pace che si materializzano poi nei corpi dei danzatori, aerei e materici allo stesso tempo. Due pareti rettangolari, trasparenti sui quali l’ombra di Euridice è in perenne cammino, anche lei in cerca di un riposo che non arriverà perché Orphée la riporta in vita – cosa che sembra non volere proprio. Nere e trasparenti le parti (le ha abbozzate, come le luci, Jean Kalmann), mosse in continuazione dai danzatori che – in varie fogge di nero, tessuti opachi e lucidi, trasparenti e brillanti a cui ha dato forma Haider Ackermann – sono furie e spiriti beati insieme, magma di corpi che scompongono e ricompongono un movimento che traduce in gesto il sentimento nelle coreografie di Schuitemaker. Due pareti che a seconda di come si dispongono nello spazio nero sono porta e corridoio degli inferi, linea di confine tra questo e l’altro mondo, barriera tra l’uomo e i suoi sentimenti. Tra il pubblico e l’azione, pareti di un confessionale dove, alla fine dell’opera, i personaggi si raccontano, si confessano, si rivelano per quello che sono, uomini, come noi.
Uno spettacolo fatto di danza (come spesso capita di vedere quando in scena c’è l’opera di Gluck, disseminata di ballabili). Danzano i ballerini della compagnia di Schuitemaker. Danza la musica. Danzano anche i tre protagonisti (bravissimi, Juan Francisco Gatell, in particolare, per la comunicativa che sa mettere nel suo gesto), vestiti di bianco, moderne statue classiche (il tema è il mito), immagini che catturano la dinamica fissità della loro azione/pensiero. Versione di Parigi, versione per tenore, eroicamente in scena ininterrottamente per i 105 minuti tutti d’un fiato dello spettacolo, perché i tre atti, efficacemente, scorrono senza intervallo, con i quadri che sfumano in dissolvenza l’uno nell’altro: Gatell è (da sempre) un interprete dalla grande intelligenza musicale, dalla voce piena, bella che qui piega diligentemente (e colora di un’inaspettata malinconia) alla scrittura di Gluck. Come fanno Anna Prohaska, tormentata e dolente Euridice, e Sara Blanch, un Amour musicalissimo e vero, più donna che stucchevole divinità.
Perché, in questo Orphée, l’Amore fa male. Toglie, oltre al fiato (e alla vita), la libertà. Orphée non è più libero. Ha rinunciato a quella libertà per l’amore. Che lo ha fatto impazzire. Gli occhi spalancati a fissare il vuoto, in ginocchio, disarmato e senza più forze. Solo.
Nelle foto @Michele Monasta Orphée et Euridice al Maggio musicale fiorentino