Il capolavoro di Mozart torna nello spettacolo del 2011 Teatro nel teatro con la sala che si moltiplica in scena Dirige Heras-Casado, Maltman ed Esposito protagonisti
L’effetto è sempre di quelli che ti lasciano senza fiato. «Cosa fa? Perché non si siede?». Un signore in smoking, quando le luci in sala sono già abbassate e il direttore sta salendo sul podio per attaccare la celebre ouverture, attraversa la platea con fare spavaldo. «Cosa fa? Perché non si siede? E perché si avvicina al direttore?». C’è chi guarda una maschera come per chiedere di intervenire. Ma è un attimo. Corre, quel signore in smoking. Passa davanti agli spettatori della prima fila. Un piede su una poltrona, la seconda laterale, la numero 2 fila A della platea sinistra. Un balzo sul palco. E via, ad attaccarsi con una forza violenta al sipario rosso. Che cade a terra e scopre un grande specchio che, mentre le luci in sala si accendono improvvisamente, ci riflette. Il signore in smoking ci guarda. Ci fissa. Mentre lo specchio alle sue spalle riflette lui in proscenio con in faccia le luci della ribalta e riflette noi seduti in platea e nei palchi. Noi magari con addosso ancora le preoccupazioni della giornata, pronti, però, ad immergerci nell’abisso di Wolfgang Amadeus Mozart e del suo Don Giovanni. Basta quel gesto, quello strappo e tutto (inteso come preoccupazioni, pensieri, persino quelli della guerra che incombe alle porte dell’Europa) sparisce. Non serve il tempo per fare decantare il mondo che di solito l’ouverture garantisce. Perché quell’immagine potente voluta da Robert Carsen per il suo Don Giovanni che debuttava il 7 dicembre 2011 inaugurando la stagione scaligera – e da allora vista tante volte (nel 2011 e nel 2017), ma sempre nuova, sorprendente, a suo modo inquietante – perché quell’immagine ti tira dentro il gioco del teatro nel teatro che il regista canadese ha scelto anche questa volta (è una sua cifra distintiva, usata in molti spettacoli, declinata in modi diversi e sempre intelligenti) per raccontare per immagini l’opera di Mozart.
Cade il sipario. Cade qualsiasi barriera tra palco e realtà. Per svelare la finzione del teatro (più vera del vero, a volte) e mettere in chiaro subito che tutto quello che si vedrà per tre ore sarà (forse) solo una rappresentazione. Dell’opera di Mozart, certo, perché quella c’è in locandina al Teatro alla Scala, sesto titolo della stagione. Ma rappresentazione (a tratti affettuosa, spesso impietosa) anche di noi pubblico che (ri)viviamo ancora una volta il rito del teatro: vestirsi bene, uscire di casa, arrivare in sala, lasciare il cappotto, leggere il programma…. Rito, rappresentazione vera più del vero dice, chiaramente, lo spettacolo di Carsen (che funziona benissimo dopo oltre dieci anni) con le scene (un gioco di fotografie che moltiplicano la sala del Piermarini) di Michael Levine e con i costumi (potrebbero essere, quelli eleganti, ma anche quelli volutamente pacchiani del matrimonio di Zerlina e Masetto, outfit da Prima, perché lo spettacolo fu pensato per un Sant’Ambrogio) di Brigitte Reiffenstuel. Palco e platea si rispecchiano. Meglio, sono la stessa cosa – e diverse volte l’azione è in mezzo alle poltrone. Tanto che Anna e la cameriera di Elvira (che in una scena attesa e sempre spiazzante resta nuda, solo con calze nere velatissime e tacchi) hanno in mano lo stesso programma di sala che abbiamo noi, con una pubblicità sulla retrocopertina e uno scatto delle prove in prima pagina, una delle tante scene dove palchi e sipari sono frammenti di un’immagine caleidoscopica della Scala.
E in mezzo a questo moltiplicarsi di sipari, di palchi, di dietro le quinte (gli stand con i costumi, gli specchi, i macchinisti – e Leporello è uno di loro – che manovrano a vista le scene) l’impressione è che Don Giovanni accada (ancora una volta) qui ed ora. Un qui ed ora dove si ripete il mito (conosciutissimo e allo stesso tempo nuovo di Tirso da Molina e di Moliere e di Da Ponte), dove rivive la storia (che potrebbe benissimo accadere oggi quando stupri, violenze, assassini, ma anche corna e tradimenti sono all’ordine del giorno) del libertino bulimico di donne, il cui piacere sta non nell’atto d’amore in sé, ma nella seduzione, nella conquista – ne colleziona, ci dice Leporello, 2065. Conquista che non gli riesce, però, con la morte. La guarda in faccia all’inizio, negli occhi del Commendatore che Don Giovanni uccide. La sfida, quasi in una partita a scacchi come nel Settimo sigillo dove uno spia le mosse dell’altra. Cerca di sedurla, la invita a cena, invita la statua del Commendatore, personificazione della morte che Carsen fa affacciare dal Palco Reale, in mezzo a noi perché è sempre lì, che aleggia. La invita a cena e lei ci va. In una moderna danza macabra che si chiude, davanti a una bara aperta, con l’assassinio del seduttore da parte del Commendatore, scena speculare a quella dell’inizio… Certo, poi Don Giovanni sprofonda all’inferno perché non si pente. O meglio no. Perché dall’inferno ritorna, elegantissimo come lo vuole Carsen, e si accende una sigaretta mentre vede sprofondare «tra fumo e foco» tutti quelli che ci stanno cantando la morale della favola che «questo è il fin di chi fa mal» e che «de’ perfidi la morte alla vita è sempre ugual».
Ultima folgorante immagine (tanto quanto quella dell’inizio) di uno spettacolo che è sì teatro nel teatro, che in questo gioco ha la sua cifra estetica più immediata, ma che allo stesso tempo è zeppo di intuizioni geniali, graffianti che potrebbero stare benissimo in un Don Giovanni ambientato non più tra spiarti che si moltiplicano, palchetti e dietro le quinte, ma in un qualsiasi scenario urbano contemporaneo. Intuizioni drammaturgiche come Elvira in sottoveste che indossa un cappotto del libertino seguita dalla cameriera con due trolley, il matrimonio trash di Masetto e Zerlina con tanto di parenti impegnati a farsi i selfie con gli sposi, il funerale del commendatore in una chiesa in cui Anna riconosce in Don Giovanni l’assassino… sino alla festa in maschera (che chiude il primo atto) alla maniera di Eyes wide shut, con lo svelamento del trucco, la caduta delle maschere, la messa a nudo dei protagonisti e del palcoscenico. E da lì in poi è tutto finzione contro realtà, è tutto un gioco di teatro nel teatro, fino al folgorante finale con le luci in sala accese, chi ci fa la morale pronto a puntare il dito prima di sprofondare nel ventre del teatro perché chi condanna è condannato. Ma anche perché un cerchio si chiude, con i personaggi evocati dalla musica che tornano alla loro dimensione letteraria e musicale.
Un gioco che sostengono bene tutti gli interpreti – Carsen, dopo le cure dello staff scaligero è arrivato a rimettere mano al suo spettacolo. Con l’istrionico Alex Esposito, scenicamente calamitante, che fa un Leporello da maschera (anche tragica) della commedia dell’arte, contrapposto al Don Giovanni dandy e personaggio reale di Christoprher Maltman. Simili (e dunque intercambiabili) fisicamente, i due cantano Mozart benissimo, con gusto, garbo e non cedendo mai al facile effetto. Come fanno tutti gli interpreti. Hanna Elisabeth Muller che è un’affascinante Donna Anna (anche se vocalmente meno ammaliante dell’ultima volta, nel 2017), Emily D’Angelo, un’Elvira piegata dall’abbandono, in costante crescita durante la serata, Andrea Carroll, Zerlina dalla voce avvolgente, Fabio Capitanucci, Masetto che scolpisce la parola in un canto limpido e luminoso. Meno a fuoco (soprattutto vocalmente) il Don Ottavio di Bernard Richter, mentre è un lusso Gunther Groissbock nella parte del Commendatore.
Tutti, chi più chi meno, hanno però qualche problema di intesa con il podio. Perché a Pablo Heras-Casado, debuttante alla Scala, più di una volta scappano i cantanti (il momento più evidente nello scollamento perenne di una battuta tra buca e palcoscenico nel finale dell’Ah pietà signori miei di Leporello nel secondo atto) cosa che costringe a improvvise accelerate o repentine frenate. Cosa che tra tempi speditissimi e altri slentati caratterizza in generale la lettura mozartiana del direttore di Granada, partito benissimo con un’ouverture dal passo teatralissimo, dal suono bello e limpido suono che, però, nel corso dell’opera si rarefà, si smaterializza inspiegabilmente (e i cantanti restano spesso “scoperti”) per poi riprendere improvvisamente corpo. Un Mozart che potenzialmente avrebbe potuto sorprendere (perché capisci che la lettura è stata analitica, studiatissima, soppesata) per libertà e bellezza, ma che alla prova dei fatti sembra una cosa riuscita solo a metà – e forse, anche lo sbalzo dei personaggi, un po’ ne ha risentito. Un Mozart non perfettamente a piombo con il Don Giovanni di Carsen – ma non è una “colpa” dato che lo spettacolo è una ripresa e non si può pretendere la perfetta unitarietà che c’è (o che dovrebbe esserci) tra direttore e regista quando un progetto nasce ex novo. Sul quale, mentre noi affondiamo nelle viscere del palcoscenico insieme con i protagonisti, cala il sipario rosso. Pesante. Pronto ad essere di nuovo strappato. Per far ripartire il gioco del teatro, tra palco e realtà.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Don Giovanni