Alla Scala bella Dama di picche diretta dal musicista russo al quale si chiede di prendere le distanze dall’amico Putin condannando senza riserve l’attacco di Mosca all’Ucraina
Il brivido, sinistro, scorre subito. «Siamo tutti qui riuniti per terrorizzare i nemici della Russia» cantano (in russo) i bambini quando la musica della Pikovaja dama di Petr Il’Ic Cajkovskij è iniziata da poco. Il respiro si ferma. Sì, i bambini – cosa ancora più inquietante. È vero, giocano, in un giardino d’inverno della Pietroburgo del diciottesimo secolo, come vuole il libretto di Modest, fratello minore di Petr, che si è ispirato al racconto di Aleksandr Puskin. Giocano a fare la guerra – perché il gioco è sempre imitazione, proiezione, “laboratorio” di ciò che si farà domani nella finzione del «facciamo che io ero…» dell’oggi. Facciamo che io ero un militare, pronto a fare la guerra, con fucili finti e spade senza punta affilata, oggi… domani chissà. Ma quella frase (detta in musica), ascoltata per la prima volta il 7 dicembre 1890 al Mariinskij di San Pietroburgo, oggi suona ancora più inquietante. Sinistra. Persino profetica, diremmo, pensando al compito – drammatico, doloroso, ma necessario – che deve avere e che sempre ha avuto l’arte. Non può che risuonare così quella frase contro «i nemici della Russia», cantata alla vigilia – anzi, a un pungo di ore – dall’attacco di Mosca e della Russia di Vladimir Putin all’Ucraina. Inizio drammatico di una guerra dentro i confini dell’Europa.
«Siamo tutti qui riuniti per terrorizzare i nemici della Russia» cantano, con quella voce acuta che a volte sa inquietare e non poco, i bambini (che sono quelli, bravissimi, del Coro di voci bianche del Teatro alla Scala) mentre dall’altra parte del mondo – ma questo lo saprai solo la mattina dopo, svegliandoti – la decisione di «avviare un’operazione militare» è stata già presa. «Siamo tutti qui riuniti per terrorizzare i nemici della Russia». E il respiro, con un tonfo sonoro, si ferma. Un presagio. Allontanato dal pensiero. Quasi esorcizzato ascoltando Cajkovskij. Un Cajkovskij che parla di morte (quella che arriva, inesorabile, quando non può esserci l’amore), proposto dai russi – arrivano da Mosca e San Pietroburgo le voci in locandina, una anche dall’Ucraina. Il Cajkovskij di Valery Gergiev, oggetto, il direttore, di un’isolata contestazione a inizio serata – nulla rispetto a quello che si poteva temere. Ma poi, alla fine, solo applausi all’artista immenso e incredibile (visto che è arrivato solo alla generale causa positività al Covid) che il direttore russo sa essere.
Certo, vicino a Putin, al quale più volte, pubblicamente, ha espresso sostegno. E per questo, oggi, sotto pressione. New York lo ha bandito, niente concerti con i Wiener philharmoniker. Il sindaco di Milano Beppe Sala, presidente del cda scaligero, e il sovrintendente Dominique Meyer gli chiedono una presa di posizione contro la guerra, a favore della pace e del dialogo. Altrimenti, avverte Sala, «saremo costretti a interrompere la collaborazione con lui». Che vuol dire che la prima replica di Pikovaja dama del 5 marzo, se questa dichiarazione non arrivasse, potrebbe essere diretta da qualcun altro. A New York una decisione del genere l’hanno già presa, poche ore dopo lo scoppio della guerra, perché hanno tolto a Gergiev i concerti che avrebbe dovuto dirigere in queste sere alla Carnagie hall (e poi a Neaples) con i Wiener philharmoniker (al suo posto ci sarà Yannick Nézet Séguin). E non ci sarà neppure il pianista Denis Matsuev, anche lui troppo vicino a Putin per poter suonare davanti al pubblico americano. Il sindaco di Monaco di Baviera manda un ultimatum a Gergiev: o prende una posizione chiara contro la guerra o non sarà più la guida musicale dei Munchner philharmoniker, l’orchestra della città.
Legittimo? Certo. Doveroso? Sicuramente. Perché la guerra va condannata sempre e comunque: non c’è mai guerra giusta. Putin è indifendibile – oggi lo dicono in tanti (Papa Francesco e il Capo dello Stato Mattarella, l’associazionismo, che scende in piazza, i cittadini comuni, gli stessi russi che chiedono scusa per quello che fa Putin), in tantissimi (dovrebbero dirlo tutti, senza riserve… in un mondo ideale che rifiuta la logica della guerra) con parole accorate e con gesti concreti; domani lo giudicherà la storia. Pericoloso? Forse un po’ sì. Perché una tale decisione (quella di New York, di Monaco e quella della Scala… e altri, sicuramente, se ne aggiungeranno) rischia di innescare una reazione a catena che potrebbe diventare poi difficile controllare – le idiozie del cancel culture in nome di un politicamente corretto a tutti i costi o certe derive del metoo hanno prodotto mostri. Restiamo a Milano. Il 9 marzo in cartellone alla Scala c’è Adriana Lecouvreur con protagonista il soprano Anna Netrebko, anche lei russa e anche lei vicina al presidente Putin. Il sindaco Sala (parentesi, da poco a Milano, a Palazzo Reale e al Museo del Novecento, istituzioni del Comune, si sono chiude due bellissime mostre dedicate al Realismo magico e a Mario Siroini, un movimento e un artista vicini, vicinissimi al fascismo e a Mussolini, intrisi di quell’ideologia che ha portato alla catastrofe, complice Margherita Sarfatti, amante del duce…), il sindaco Sala chiederà anche alla Netrebko una presa di posizione? Anna la firmerà? Non solo. Il Corpo di ballo ha come étoile Svetlana Zakharova, eletta nel 2008 alla Duma proprio nelle liste di Russia unita, il partito di Putin. Danzerà ancora?
Non averli in cartellone (la Netrebko, la Zakharova e gli altri artisti amici di Putin…), certo, non sarebbe un problema, ci sono tanti artisti validi, validissimi con i quali sostituirli… e certo sarebbe un segnale forte per dire che la cultura va al di là delle logiche economiche (quelle che, invece, stanno alla base delle guerre), al di là del fare cassa con i grandi nomi e al di là delle penali da pagare per un contratto risolto senza una giusta (almeno formalmente, certo, idealmente è più che giusta) causa. Ma prendere una posizione contro la guerra dovrebbe essere un gesto spontaneo, non forzato (che cambierebbe il suo sapore… una dichiarazione per non perdere il lavoro…), che nasce dalla coscienza di chi è cittadino e artista, uomo prima di tutto. Perché poi il rischio è che, applicando questa logica, l’elenco potrebbe diventare infinito e allargarsi ad ogni scelta di campo politica, etica, economica… essere richiesto a tutti i professionisti. E non solo in ambito musicale, ma in qualsiasi risvolto della vita di tutti i giorni. Meglio forse limitarsi a giudicare l’arte – come fatto in passato, d’altra parte, “perdonando” a grandi del podio simpatie totalitariste (di destra e di sinistra, europee, sovietiche, cubane o sudamericane… ce ne sono state da ogni parte) mai condannate apertamente da grandi del passato oggi elevati a miti.
E l’arte di Gergiev, lo dimostra questa Pikovaja dama scaligera, è immensa. Immensa in questo repertorio che il direttore padroneggia da sempre, come nessuno. Straordinario, Gergiev, nel restituire questa musica in tutta la sua bellezza febbrile, inquieta. Basta un gesto della mano che traccia segni minimi nell’aria – Gergiev dirige senza bacchetta – e un magma sonoro prende forma dal silenzio per raccontare i più torbidi anfratti dell’animo umano. Inquieto, avido, incline al male, incapace di farsi redimere dall’amore. L’animo di Hermann e di Liza, della Contessa e del principe Eleckij – muoiono tutti, il principe no, ma di fronte al vuoto che rimane muore dentro, sicuramente. Un’arte, quella di Gergiev, che ha del miracoloso se si pensa al risultato di sconvolgente bellezza ottenuto senza nemmeno un giorno di prova (le hanno seguite tuti i suoi assistenti) perché il musicista positivo al Covid è andato in quarantena ed è arrivato a Milano solo per la prova generale. E poi via, entrando in teatro due minuti prima che le luci si abbassassero, direttamente sul podio per la prima.
Orchestra e coro ci hanno messo del loro. Concentratissimi nel seguire il gesto del direttore, nel (ri)creare dal nulla la musica straordinaria di Cajkovskij morbida e tagliente allo stesso tempo, fatta di fuochi di passione e di raggelamenti sinistri, tra forti e fortissimi che sconquassano e pianissimi poetici, conturbanti, ma al tempo stesso inquietanti – bellissima la scena della stanza della Contessa come quella della Neva per l’intensità drammatica che si respira. Una musica, quella di Cajkovskij riletta da Gergiev, cangiante, continuamente, tra gli squarci novecenteschi che ti arrivano addosso improvvisi e gli sguardi al passato (la pantomima mozartiana del secondo atto) che non sono mai leziosi copia e incolla, ma ripensano da dentro quella musica, illuminandola di una luce livida.
La stessa luce livida che si allunga sui personaggi e sui loro destini. Finiranno male. Tutti. Lo capisci subito, da come la musica li racconta. Non c’è speranza, non c’è amore, non c’è possibilità di redenzione per Hermann e Liza. Lui, ossessionato dal segreto delle tre carte che vincono sempre, è Najmiddin Mavlaynov, tenore dalla voce bella, dallo squillo sicuro, dalla tecnica solidissima che gli permette di disegnare un Hermann perfettamente a fuoco, allucinato e inquieto, ma anche disarmato di fronte al precipitare degli eventi. Lei è Asmik Grigorian, cantante magnetica vocalmente (sembra che le venga tutto facile, naturale) e scenicamente (anche se qui, non supportata adeguatamente dal regista Matthias Hartmann, è un po’ lasciata a se stessa, a ripetere perennemente il gesto di sistemarsi i capelli), capace con uno sguardo di restituire tutta la verità di un personaggio annoiato dalla vita, tormentato da un male che cova dentro e che la porta al gesto estremo del tuffo nelle acque della Neva – e il balzo a testa in giù della Grigorian impressiona per l’inquietante verità che trasmette.
Le rive della Neva sono un praticabile nero, una scala nel centro, intorno pareti di neon – il marchio di fabbrica di Hartmann che li aveva messi abbondantemente anche nel Freischutz e nell’Idomeneo realizzati per la Scala. Pareti mobili, parallelepipedi a tre facce (da una parte i neon, dall’altra specchi coperti da tende bianche, dall’altra ancora un’imbottitura) che combinandosi in vari modi ricreano gli ambienti della vicenda – trasportata da Hartmann in un imprecisato Novecento, quello del cinema muto, forze, visto il ritratto/foto in bianco e nero della Contessa, che in scena invece appare con una maschera per il viso appiccicata al volto e occhialini neri che la rendono un personaggio beckettiano. Idee sparse, molte non risolte, altre non pienamente realizzate, per uno spettacolo fondamentalmente non riuscito… brutto (e alla fine sono piovuti buu sul regista e sulla sua squadra), dispiace dirlo perché alcune scene di Volker Hintermeier sono di impatto (la casa da gioco, la stanza della contessa), i costumi in bianco e nero di Malte Lubben sono eleganti, la coreografia di Paul Blackman efficace.
Convincono, senza riserve, le voci. Mavlaynov, la Grigorian, Roman Burdenko nel doppio ruolo del principe Tomskij e di Zlatogor, Alexey Markov che è il principe Eleckij, Julia Gertseva che è un’algida Contessa, Elena Maximova (malinconica Polina nel bellissimo duetto con Liza), Maria Nazarova (Masha e Prilepa) e Olga Syniakova (Milovzor). Voce intrisa di malinconia. Un brivido… un altro. Perché è lei, Olga Syniakova, che è nata in Ucraina. Canta, con i suoi colleghi russi. Perché forse la musica può fare più rumore delle armi. E gettare ponti di fratellanza.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala La dama di picche