Prima mondiale assoluta al Teatro la Fenice di Venezia dell’opera su libretto del regista Damiano Michieletto Atmosfere cupe per la commedia nel dialetto di Chioggia
D’accordo. Viviamo tempi cupi. E qualsiasi lite “letteraria” – per una donna o per un pezzo di zucca al forno, poco importa, purché lite sia – rimanda ad altre liti, ad altri soprusi. Ad altre invasioni di campo – e oggi ne conosciamo bene la drammatica attualità. L’arte evoca, suggerisce, rimanda. Trasfigura la realtà raccontata per farla diventare pensiero sul presente. E se così non fosse sarebbe svuotata di senso. Così si litiga, brandendo assi d legno, sul palco del Teatro La Fenice di Venezia. Si urla. Per una donna, per un pezzo di zucca. Si litiga, si urla nelle Baruffe di Giorgio Battistelli e Damiano Michieletto, compositore (naturalmente) il primo, librettista (e regista) il secondo, che ha adattato (operazione chirurgica di taglio e cucito ben riuscita) Le baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni, mantenendone intatto il musicalissimo dialetto veneziano, meglio chioggiotto – che è giù musica quando lo si sente recitare in un teatro di prosa (rivedere le Baruffe di Giorgio Strehler e del Piccolo). E conservando, in un racconto che parla di zucche, di pesci, di tartane, ma che è senza tempo, lo sguardo disincantato di Goldoni sul (suo) presente. Che ancora oggi dice molto, tanto che il titolo dell’opera di Battistelli e Michieletto è solo Le baruffe, perde la connotazione geografica a dire la sua universalità.
Prima mondiale (accolta con calorosi applausi) della partitura commissionata dal teatro lagunare al compositore laziale e al regista veneto. Spettacolo di carnevale della Fenice – e Goldoni è un maestro nel raccontare dietro il sorriso, un sorriso amaro, ma mai tragico, quella malinconia che si respira sempre in questa festa, Dunque, scelta azzeccata. Ma qualcosa sfugge. Qualcosa non torna ascoltando e vedendo (molto ben fatto lo streaming sul sito della Fenice con la regia curata dallo stesso Michieletto) Le baruffe. Sfugge il senso di dare a Goldoni, al Carlo Goldoni commediografo che nelle Baruffe racconta con una leggerezza profonda e con un realismo disarmante e vero più del vero la realtà, sfugge il senso di dare al Goldoni commediografo un colore tragico. O meglio. Un colore nero. Vero, ci aveva già provato Fassbinder riscrivendo (e colorando di nero) La bottega del caffè. E l’operazione aveva un suo senso perché i personaggi venivano deformati dalla lente “economica” dell’avidità, della cupidigia, dell’avarizia, guidati nelle loro azioni solo dalla logica del profitto – bellissimo lo spettacolo di qualche anno fa dell’Elfo di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani con l’azione su una laguna fatta di acqua stagnante e putrida. Ci aveva provato (e pure lì funzionava) anche Luca Ronconi nella sua regia noir per il Piccolo de I due gemelli veneziani – alla fine in scena c’era anche un morto ammazzato. Fassbinder, Ronconi… ma anche altri, perché il Goldoni noir non è una novità.
Ma il noir non si addice alle Baruffe. Dove pure ci sono liti che finiscono in tribunale, dove pure c’è il coadiutore di un cancelliere criminale (e nel giovane assistente, il comandador, Goldoni pare ritragga se stesso). Ma dove non c’è quella tragicità che, diventando quasi epicità, risuona nella musica di Battistelli e nello spettacolo di Michieletto. Cupa la musica, dove percussioni e ottoni disegnano un mondo sonoro nel quale il canto è sempre declamato (un tappeto pucciniano con una vocalità straussiana), fatto di repentini scarti di registro, dal basso all’acuto. Sui toni del grigio, del marrone e del verde scuro, immersa in una perenne penombra, la regia-installazione di Michieletto – le scene di Paolo Fantin fanno calare dall’alto grandi ventilatori e disegnano lo spazio con pareti di legno che vengono poi scarnificate dagli interpreti che usano le assi di legno per farsi la guerra. Uno spettacolo antinaturalistico (i costumi di Carla Teti sono, però, filologicamente goldoniani) che si fa tragica danza (i movimenti coreografici sono di Thomas Wilhelm) quasi tribale. E se non mancano comunque i momenti di poesia, come il telo/velo da sposa del finale, inquieta (e non poco) la zucca che, spenta la musica, esplode un attimo prima che il palcoscenico piombi nel buio.
Troppo? Forse, per una commedia leggera – non frivola, intendiamoci, seppure parli di gelosie d’amore –, leggera come un soffio di vento che tutto spazza e porta via. Perché il testo di Goldoni ha proprio questa forza, impetuosa, improvvisa, ma che poi – come il vento – si placa. E tutto torna a posto. Battistelli, in una narrazione fatta di una perfetta concatenazione di quadri cantati e intermezzi musicali, lo riveste di una musica severa, solenne. La stessa severità, la stessa solennità – ma lì il testo era tutt’altro, ispirato ad una tragedia shakespeariana – del Julius Caesar presentato a novembre al Teatro dell’Opera di Roma. Stessa struttura, perché anche la musica delle Baruffe prende forma da un magma di suoni evocati dal coro fuori scena. Una musica scritta benissimo. Complessa, mai facile e mai banale. Ma fruibile. Fruibilissima.
Fuori sincro, però, con il testo, con lo spirito della commedia goldoniana. Che Michieletto – in linea con il colore musicale di Battistelli – immerge in un buio poco rassicurante (le luci sono di Alessandro Carletti). Non c’è la luce del sole, non c’è il mare (siamo all’opposto delle Baruffe strehleriane con le scene abbaglianti di Luciano Damiani) nelle vite dei pescatori di Chioggia. C’è la terra. C’è il legno. C’è la pesantezza della materia nello spettacolo di Michieletto, che è quasi un’installazione artistica (il regista da tempo esplora questa via dell’astrazione, alternandola a quella di un racconto più narrativo e attualizzato) popolato dai grandi oggetti disegnati da Fantin – lo scenografo è accanto a Michieletto anche nell’avventura dell’installazione Archeus. Labirinto Mozart realizzata a Mestre per la Biennale e aperta sino a giugno. Un racconto astratto quello di Michieletto, che si scompone e si ricompone in scene che si susseguono in dissolvenza. Fermo immagine, coreografie di corpi che sul ritmo musicale del dialetto goldoniano evocano movimenti dell’anima. Bello, esteticamente compiuto – e le immagini streaming con la regia dello stesso Michieletto lo raccontano benissimo, anche a distanza. Ma forse non così riuscito come altre regie-capolavoro (discusse e discutibili, certo, ma profonde, piene di idee, suggestioni, anche di pugni nello stomaco) del regista veneto.
Musicalità agli antipodi, quella del dialetto chioggiotto e quella delle note di Battistelli. Restituite puntualmente dal podio da Enrico Calesso (l’orchestra della Fenice è a proprio agio con Battistelli così come il coro, diretto da Alfonso Caiani, nuovo in laguna) e in scena da una squadra affiatata di interpreti. Eccellenti le prove di Leonardo Cortellazzi (Toffolo Marmottina, quello che offrendo la zucca alle ragazze scatena le Baruffe), Alessandro Luongo (padron Toni) ed Enrico Casari (Titta Nane). Ma tutti sono convincenti ed efficaci nei loro ruoli, Silvia Frigato (Checca), Francesca Sorteni (Lucietta), Valeria Giardiello (Madonna Pasqua), Loriana Castellano (Madonna Libera), Francesca Lombardio Mazzulli (Orsetta), Marcello Nardis (Beppo), Rocco Cavalluzzi (Padron Fortunato), Pietro Di Bianco (Padron Vincenzo), Federico Longhi (Isidoro), Emanuele Pedrini (il comandador) e Safa Korkmaz (Canocchia).
Canocchia, il venditore della zucca al forno. Che scatena le baruffe. Immagine tragica del nostro tempo, dicono Battistelli e Michieletto. Delle paure che covano. Che, speriamo tutti, un soffio di vento possa spazzare via. Come le stelle filanti, per la strada, l’ultima sera di carnevale.
Nella foto @Michele Crosera Le baruffe al Teatro La Fenice