Al Piccolo bella versione teatrale di M Il figlio del secolo libro di Scurati riscritto e diretto da Massimo Popolizio protagonista con Tommaso Ragno nei panni di Mussolini
Una famiglia con la mascherina ci guarda da una fotografia in bianco e nero dei tempi della Spagnola. Gli occhi penetranti sopra il lembo di tessuto che copre la bocca. Ci guarda mentre applaudiamo, seduti in platea al Piccolo di Milano, dopo tre ore di straordinario teatro, straordinario perché ci ha raccontato di noi (non senza turbamento) con una storia, drammaticamente vera, di un secolo fa – già un secolo, ma sembra ieri, anche perché le ombre di quel tempo si allungano ancora sul nostro presente. La storia di come Benito Mussolini in sei (drammatici, dolorosi, assurdi, iperbolici, tragicomici…) anni sia diventato “padrone” dell’Italia. Proprio mentre si diffondeva il virus della Spagnola, riassunto iconicamente in quella foto/simbolo che da qualche tempo – da quando un’altra pandemia ha colpito il mondo, il nostro mondo – è tornata a circolare. Per dire (avvertimento e monito) che tutto torna. Può tornare, se non vigiliamo abbastanza.
E ci sembra di guardarci allo specchio osservando quella foto (e quell’epoca apparentemente lontana, l’epoca della foto, ma anche l’epoca che abbiamo appena visto ri-prendere vita sul palco), se non fosse per i vestiti di foggia primonovecentesca. Un corto circuito, perché anche oggi abbiamo una mascherina sul viso (la dobbiamo avere per andare a teatro) in platea al Piccolo mentre in sottofondo (ritmata dal battito di mani e dal picchiare dei piedi di chi fa avanti e indietro sulle assi del palcoscenico) c’è Bandiera bianca di Franco Battiato. Quella di «Mister Tamburino non ho voglia di scherzare, rimettiamoci la maglia i tempi stanno per cambiare…». I tempi stanno per cambiare, o sono già cambiati. Occorre rimettersi la maglia (o la mascherina) della lotta e della resistenza. Perché il virus… si è diffuso. Oggi come ieri. E non è (solo) il Covid o la Spagnola. È il virus della violenza, dell’intolleranza, dell’odio… (l’elenco potrebbe essere lunghissimo) ci dice M Il figlio del secolo, lo spettacolo che Massimo Popolizio ha tratto dal romanzo di Antonio Scurati su Benito Mussolini, facendone lo spettacolo di punta (anche se le repliche sono state ridotte perché il debutto è stato rimandato per ben due volte… proprio a causa del Covid che ha colpito a più riprese la compagnia) della stagione 2022 del Piccolo teatro – coprodotto da Teatro di Roma a marzo sarà all’Argentina.
Ascesa e caduta… terrore (che per qualcuno era anche splendore) e miseria… parafrasando Brecht (che torna nella cifra didascalica, tragicomica, straniante dello spettacolo di Popolizio) in un racconto che è lucida e spietata analisi dei fatti che hanno portato il figlio del fabbro al potere, dalla fondazione dei Fasci italiani di combattimento del 1919 al discorso di Montecitorio del 1925 con il quale il primo ministro – e prossimo dittatore – si addossa la colpa politica del delitto Matteotti. Una narrazione, quella serrata e incalzante dei trentuno quadri di M Il figlio del secolo, dove ci sono l’ascesa e il terrore, perché la caduta e la miseria (che già, comunque, si legge in controluce) arriveranno nei capitoli successivi della trilogia di Scurati su M (dopo M L’uomo della provvidenza, già pubblicato da Bompiani, si attende il terzo volume) – e chissà se Popolizio porterà in scena anche quelli, sarebbe una bella sfida, che resterebbe nella storia del teatro.
Letteratura che nella ri-scrittura di Popolizio e di Lorenzo Pavolini (un vero e proprio smontaggio e rimontaggio delle oltre 800 pagine del romanzo di Scurati, condensate in trentuno quadri, ognuno con un titolo, alla maniera di Brecht) si fa teatro. Straniante, un cabaret espressionista (ogni quadro è un numero dove la recitazione è sempre contrappuntata dalla musica, dal barocco alla techno) grottesco e tragicomico (perché le vicende, se non fosse che sono drammaticamente vere, sono narrate con questo sguardo caricaturale, alla maniera di Nerone di Petrolini), dove i personaggi si raccontano in terza persona – e il modello sperimentato da Luca Ronconi con il Pasticciaccio di Gadda, con i Karamazow di Dostoevskij, con Pornografia di Gombrowicz, Nella gabbia di James… ma anche dallo stesso Popolizio con Ragazzi di vita di Pasolini è chiaro. Straniante, ma allo stesso tempo coinvolgente, capace di tenerti aggrappato al racconto (lungo due ore e quaranta minuti) che è un’analisi impietosa nella sua disarmante lucidità, millimetrica e fatta quasi al microscopio tanto è dettagliata e precisa, della costruzione del potere attraverso il consenso, la violenza, la stampa e la cultura – ruolo centrale nello spettacolo (come nella vicenda di Mussolini) lo riveste Margherita Sarfatti, intellettuale e critica d’arte, amante del duce.
Un saggio storico? Piuttosto una riflessione sulla storia. Documentata. Documentatissima. Spesso rivelatrice. Piena di link, di rimandi a fatti e personaggi (che appaiono a volte anche fugacemente) che potrebbero essere ciascuno oggetto di uno spettacolo: la Sarfatti, Giacomo Matteotti, il Lenin dell’Emilia Nicolino Bombacci, l’inventore delle purghe e del metodo dell’olio di ricino Italo Balbo, un decadente (e non solo in senso letterario) Gabriele D’Annunzio, Filippo Tommaso Marinetti… nomi che ti restano in testa (reminiscenze scolastiche) e che – suggerimento e ricchezza di uno spettacolo come M Il figlio del secolo – ti invitano all’approfondimento una volta a casa. Tutti indispensabili per la comprensione dell’architettura, complessa e affascinante, della drammatica storia dell’ascesa al potere di Mussolini. Ancora più inquietante perché getta delle ombre sinistre sui fatti del nostro presente e di un recente passato che ancora incombe.
Ed è dunque necessario il respiro epico che Popolizio imprime alla sua regia che nell’estetica è anche un affettuoso omaggio a Luca Ronconi – i personaggi sui carrelli, le scene che vanno e vengono, il Popolizio-Mussolini sospeso in aria, il suono a contrappuntare sempre l’azione. Omaggio nell’estetica, non nella recitazione che in Ronconi era antinaturalistica, figlia di una vivisezione del testo, ma che nella messinscena di Popolizio (antinaturalistica nell’uso della terza persona, certo) arriva immediata, capace (necessariamente) di restituire la parola di Scurati nella sua disarmante chiarezza e asciuttezza. Quella dell’analisi storiografica. Che qui si veste di azione. Quasi cinematografica nel montaggio di Popolizio fatto di primi piani e campi lunghi, di scene e controscene, di zoom e carrellate. Un’azione che nasce dal nero del palcoscenico (le scene di Marco Rossi dialogano con i filmati dell’Istituto Luce e con le immagini iconiche del ventennio), prende forma grazie ai corpi degli attori (i costumi, belli, accuratissimi, di Gianluca Sbicca restituiscono magnificamente la moda dell’epoca) e si volatilizza in dissolvenze cinematografiche (le luci di Luigi Biondi). Uno spettacolo tutto in bianco e nero (unica macchia di colore – come il cappottino della bimba ebrea di Schindler’s list – delle bandiere delle manifestanti socialiste e del golf della tenutaria della casa di tolleranza dove Mussolini si “ritempra”) come i cinegiornali dell’epoca.
M Il figlio del secolo (di un secolo che ha fatto ripetutamente violenza e guerra, senza distinzione di colore politico) recitato magnificamente dai diciotto (bravissimi) attori capitanati dallo stesso Popolizio e da Tommaso Ragno, le due facce di Mussolini che lo spettacolo racconta non senza uno sguardo ironico e sarcastico che ti fa sorridere amaramente. Non simili, non truccati “alla maniera di…” perché non è la verosimiglianza che conta in questa lettura dove si colgono e si raccontano i personaggi come incarnazioni di un destino, il loro e il nostro: il teatrante Popolizio (che è stato Mussolini al cinema nel 29018 in Sono tornato di Luca Miniero), perché quella del duce sembra quasi una costruzione mediatica, teatrale appunto, del consenso; il Mussolini “storico”, iconografico di Tommaso Ragno, che dice le parole del duce sempre in terza persona, necessario distacco dello sguardo storico sul personaggio. Bravissimi, Popolizio e Ragno nel tenere la scena ininterrottamente, a volte in una staffetta, altre in un serrato faccia a faccia tra le due anime del duce: istrionico, irresistibile nella sua capacità di disegnare una maschera tragica che ti fa sorridere (amaramente) il primo, di tragica compostezza e verità il secondo.Sandra Toffolatti con la sua bellezza (e la sua voce) ipnotica da’ corpo a Margherita Sarfatti, vittima (in amore, ma anche in politica) del fascino di Mussolini. Raffaele Esposito commuove disegnando un dolente Giacomo Matteotti: quanta poesia nelle parole non dette, nei sentimenti trattenuti con pudore durante i dialoghi (modellati sulle parole delle molte lettere che i due si sono scambiati) con la moglie Velia, impersonata con malinconica dolcezza da Francesca Osso, nei momenti più lirici dello spettacolo. Pietro Nenni e Italo Balbo hanno il piglio sinistro di Paolo Musio, Michele Nani un reporter che funge da filo conduttore, Tommaso Cardarelli è il voltagabbana Nicolino Bombacci, ma è anche tanti altri personaggi come Alberto Onofrietti, Riccardo Bocci, Diana Manea, Michele Dell’Utri, Flavio Franucci e Francesco Giordano, Gabriele Brunelli, Giulia Heathfield Di Rienzi, Antonio Perretta e Beatrice Verzotti.
Per tutti molti applausi a scena aperta, suggellati dal lungo applauso finale. A dire, mentre sulle note di Battiato una famiglia con la mascherina ci guarda da una fotografia in bianco e nero dei tempi della Spagnola, la necessità di riflettere ancora su una storia che si pensa (spesso erroneamente) di conoscere. Una storia che drammaticamente assomiglia a tante altre storie di oggi. Ma che facendo memoria, anche con il teatro, possiamo (dobbiamo) evitare di ripetere.
Nelle foto @Masiar Pasquali M Il figlio del secolo al Piccolo teatro