Il direttore di Riga porta Wagner e Beethoven alla Scala per la sua prima volta sul podio di un’orchestra italiana
Rettore e Ditonellapiaga a Sanremo (perché non possiamo non dirci tutti esperti di Sanremo nella settimana post festival) dicevano (cantavano) che «è una questione di chimica». In amore, certo. Ma anche in musica. E non solo nella musica pop. Anche nella musica classica. Lo dimostra il concerto della Filarmonica della Scala di lunedì 7 febbraio. Concerto messo in calendario dopo l’annullamento della tournée fuori dalla Germania della Gewandhausorchester di Lipsia. Alla Scala avrebbe dovuto portarla il suo kappelmeister, Andris Nelsons. Che si è subito reso disponibile a non lasciare Milano senza un concerto – Milano e Lugano, perché la sera prima la tournée faceva tappa al Lac in Svizzera – e ha accettato di dirigere la Filarmonica, a Lugano e a Milano. Prima volta di Nelsons – nato a Riga nel 1978, direttore oltre che della formazione di Lipsia anche della Boston symphony e di casa a Saliburgo e Bayreuth, regolarmente sul podio dei Wiener e dei Berliner – sul podio di un’orchestra italiana. Buona la prima? Si e no. E non per “colpa” sua.
Anzi. Come a volte si dice in amore, non è colpa di nessuno. Perché, si diceva, anche in musica è una questione di chimica. Che sembra non essere scattata tra Nelsons e la Filarmonica (che pure ha innamoramenti e lunghe e felici “storie d’amore” con grandi direttori). Almeno stando al risultato sonoro del concerto dell’altra sera – senza sapere come sono andate le prove, senza conoscere il dietro le quinte di questi giorni dove magari qualcosa è scattato. Una chimica che stando in sala sembra non essere scattata nonostante il grande affetto dimostrato dalla Filarmonica che alla fine del concerto (mentre un isolato contestatore ha subito desistito dal lanciare i suoi buu dal loggione) ha applaudito Nelsons, battendo ripetutamente mani e piedi – e viene in mente il «Con le mani, ciao ciao. Con i piedi, ciao ciao» della Rappresentante di lista per restare ancora a Sanremo. Affetto ricambiato dal direttore. Che ha un gesto all’americana (e anche un po’ alla tedesca) che anticipa, che suggerisce, che non batte al millimetro il tempo. E che la Filarmonica (per dirla tutta erano diversi gli innesti in organico, a iniziare dalla spalla, Sergey Galaktionov, primo violino del Regio di Torino) non ha sempre colto.
Non è scattata la chimica diresti di fronte ad attacchi imprecisi e spesso non all’unisono tra sezioni ( e a volte anche tra gli stessi strumenti), appiombi sghembi, sporcature (specie negli ottoni). Specie in Wagner, che Nelsons ha messo sul leggio della prima parte del concerto. Le trasparenze che il direttore chiede (bellissime le intenzioni per un Wagner lieve e intriso di spiritualità) nel Preludio di Lohengrin, arrivano opache, le inquietudini del Preludio di Parsifal nelle quali Nelsons affonda le mani restano in superficie, non raccontano il tormento della ricerca del puro folle. Va meglio con (il meno tecnicamente complesso) Incantesimo del Venerdì Santo che arriva sontuoso, rigoglioso di colori. Come il Beethoven – suonato da Nelsons con l’orchestra in organico “wagneriano” – della Settima sinfonia. Solenne, di ampio respiro, dove i contrasti beethoveniani non sono fatti di scarti di volume, ma di suoni con i disegni orchestrali portati all’estremo, con i controcanti che arrivano improvvisi a insidiare le melodie rassicuranti. Un Beethoven dove la Filarmonica segue meglio il gesto di Nelsons (e gli applausi sono più convinti e calorosi, rispetto a quelli più tiepidi dopo Wagner). Cosa che apre la strada ad un ritorno (di fiamma).
Nelle foto @Giorgio Gori Andris Nelsons e la Filarmonica della Scala