L’Italiana in Algeri in un cabaret dei primi del Novecento nella rilettura della regista veneta per i teatri delle Marche «Fare teatro è un inferno, soprattutto per una donna»
«Avevamo già indossato i costumi con i lustrini. Le luci della ribalta erano accese. Il sipario pronto ad alzarsi. Ma poi è arrivato il Covid e ci ha – letteralmente – tolto il turbante dalla testa. Ha spento le luci. E lasciato inesorabilmente chiuso il sipario». E tutto è rimasto così per tanto tempo. Per i mesi bui del primo lockdown. Per quelli, lunghi, del secondo, inaspettato come la nuova chiusura dei teatri piombata addosso al mondo dello spettacolo a ottobre 2020. «Abbiamo messo in pausa la nostra Italiana per fare altro, per dedicarci ad altre urgenze e capire come sopravvivere, noi che di teatro viviamo. In attesa di riportare l’opera in scena. Ed ora questo momento è arrivato». Stasera, sabato 5 febbraio, al Teatro della Fortuna di Fano va in scena L’italiana in Algeri di Gioachino Rossini, nuova produzione della Fondazione rete lirica delle Marche – il 12 febbraio sarà al Teatro dell’Aquila di Fermo, il 19 al Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno. «Quell’Italiana che avevamo provato a lungo e che era pronta per debuttare il 7 marzo 2020 prima che il Covid ci rispedisse tutti a casa» racconta oggi Cecilia Ligorio che firma la regia dello spettacolo che vede Ferdinando Sulla sul podio dell’Orchestra sinfonica Rossini. «E per me – rfilette la regista veronese, classe 1981 – non c’è modo migliore per ritornare a fare teatro dal vivo e con il pubblico che con uno spettacolo dove mettiamo in scena il teatro nel teatro – lo avevamo pensato così nel 2020 –, trasportando le vicende di Isabella e Mustafà nel Cabaret Algeri».
Cabaret Algeri? Quindi, Cecilia Ligorio, non vedremo sul palco l’harem di Mustafà?
«Niente “turcherie” come si usava nell’Ottocento, ai tempi di Rossini. Qualcosa che suscitava il sorriso e la risata perché il mondo che veniva messo in scena era l’esotico. Codici che oggi non funzionano. Perché oggi dire Algeria, dire Turchia suggerisce prima di tutto implicazioni politiche. Così mi sono chiesta come rendere oggi quell’esotico, come restituire in un modo comprensibile al pubblico di oggi le “turcherie” messe in scena da Rossini e dal librettista Angelo Anelli. Il linguaggio, il contesto che ho pensato di usare per raccontare la storia di Isabella è il cabaret di inizio Novecento. In scena – i bozzetti sono di Gregorio Zurla, i figurini di Vera Pierantoni Giua – ci sarà il Cabaret Algeri, il regno maschile di Mustafà dove arriva una donna, Isabella, che sconvolge le usanze del luogo».
Perché proprio il cabaret?
«Proprio come succede nell’Italiana nel cabaret il ruolo della donna era duplice: se da una parte rappresentava il centro intorno al quale si costruiva il desiderio, dall’altra, investita di questo ruolo, essa esercitava il potere di sottrarsi o concedersi agli sguardi del pubblico. Nel cabaret si oscillava tra lo stereotipo della donna oggetto e la figura nuova e sorprendente di una donna libera di esprimersi nella piena autonomia e indipendenza della propria persona, dalla nudità all’ambiguità di genere, senza per questo incorrere in giudizi accusatori e senza subire umiliazione. Donna-angelo, donna-selvaggia, donna-uomo: pensiamo ad esempio a Marlene Dietrich o al gioco di genere di Julie Andrews in Victor Victoria. Anche la rossiniana e intelligente Isabella gioca con Mustafà in questa maniera, accetta lo stereotipo che questi le attribuisce e ne fa la sua arma, usando il proprio potere di seduzione come strumento di controllo, ribaltando i ruoli, ridicolizzando Mustafà e dimostrando a tutti, che non serve essere uomo per portare i pantaloni».
Questa idea si sposa con la musica di Rossini, datata 1813?
«Molto bene direi. L’opera è a numeri chiusi e ogni numero viene proposto come fosse uno sketch del cabaret, un gioco ideato da Isabella che si diverte con i costumi teatrali. Tanto più che questo vortice di travestimenti c’è nel testo con Taddeo nominato kaimakan e Mustafà incoronato pappataci. Un gioco che chiede ai cantanti di essere quasi attori di prosa. E il cast con il quale ho lavorato è straordinario perché ha giocato con il cabaret, cosa che richiede un grande livello di energia e un desiderio di sfidare le proprie potenzialità».
In locandina alcuni nomi sono gli stessi di due anni fa, altri, invece, sono cambiati.
«Se da una parte mi dispiace per chi non ha potuto esserci in questa ripresa, dall’altra sono felice di aver trovato altri interpreti ugualmente straordinari. Francesca Di Sauro è Elvira, Nicolò Donini Mustafà, Mariangela Marini è Zulma, Pablo Galvez Haly. Le new entry sono Shanul Sharma che prende il posto di Matteo Roma nei panni di Lindoro, Lara Lagni che raccoglie il testimone da Giorgia Paci come Elvira e Ramiro Maturana che veste i panni di Taddeo che erano di Peter Sokolov. Quasi tutti vengono dall’Accademia rossiniana Alberto Zedda di Pesaro. Come dire, è quel progetto, ma allo stesso tempo è un progetto diverso, come il teatro che cambiano ogni sera».
Cecilia Ligorio
A proposito, lei come ha iniziato a fare teatro?
«Come tanti, a livello amatoriale. Ho iniziato a 12 anni e l’appuntamento con le lezioni e le prove era l’unica cosa che giustificava la fatica di finire in fretta i compiti per poter uscire andare a fare teatro. Studiavo anche musica, il violoncello. Poi ho deciso che il teatro doveva essere la mia vita, perché raccontare storie e farlo insieme ad altri, in un lavoro collettivo frutto di confronto e di scambio, mi ha sempre affascinato. Ho frequentato l’Accademia Silvio D’Amico di Roma. Un giorno l’amico Sergio Alapont mi ha chiamata per aiutarlo nella direzione tecnica del festival di Benicassim in Spagna. Accettai. Uno dei registi all’ultimo ha dato forfait e lui mi ha affidato la messa in scena di Maria di Buenos Aires di Piazzolla in forma semiscenica. Da allora da un progetto è sempre nato un nuovo progetto e sono riuscita a unire teatro e musica, le mie due passioni».
Che per un po’, a causa della pandemia, ha dovuto mettere da parte…
«In due anni ci sono state questioni pratiche da affrontare oltre alla necessità di inventarsi un modo di sopravvivere di fronte al fatto che il mestiere che sai fare ti viene sottratto, impedito. Il nodo è stato provare a trovare un senso a tutto quello che stava capitando. E che sta capitando ancora. Penso che la pandemia e lo stop forzato sia stata l’occasione per noi artisti di rimetterci in discussione: siamo tornati all’origine, al senso del nostro fare, chiedendoci il perché facciamo teatro perché può essere che la nostra arte fosse diventata un lavoro, quasi una routine. È stato ritrovare la necessità e l’urgenza della nostra professione».
Cosa ha fatto nei mesi di chiusura dei teatri?
«Ho lavorato molto e ho scritto tanto, alcuni libretti come quello tratto dalla Signorina Else di Schnitzler per l’opera di Federico Gardella che ho messo in scena questa estate a Montepulcinao. E mi sono iscritta nuovamente all’università, per il biennio di specialità in musicologia: capire meglio la materia con cui lavoro non è solo utile ma è un dovere. Il girono della generale dell’Italiana ho avuto un esame che ho sostenuto da remoto. Ormai si fa così, come lo streaming in teatro; anche se non mi convince non lo rifiuto perché sono convinta che ci possano essere risvolti interessanti dal dialogo tra il linguaggio scenico e quello multimediale».
Com’è fare teatro oggi
«È un inferno perché è un atto di resistenza alla fretta, un modo per fare esperienza di vita e per raccontare la vita. Che è complessa, complicata, una materia che cresce con i corpi, con i tempi dell’uomo».
È difficile essere una regista donna?
«È molto difficile, soprattutto in Italia dove siamo si e no il 10%. L’autorevolezza ha varie forme per esprimersi, ma noi in Italia siamo abituati a forme forti, invece ci sono forme diverse, più delicate… attenzione, questo non vuol dire che femminile sia uguale a fragile e delicato. Ma dovremmo riflettere sul fatto che ci possa essere una forma diversa di autorevolezza».
Nelle foto @Luigi Angelucci L’italiana in Algeri a Fano