A Milano alla fondazione Prada l’Italian opera academy con la popolare opera di Verdi usata come “libro di testo” per le lezioni a cinque giovani direttori d’orchestra
«Più piano! Più piano!». Non una parola, però. Perché la richiesta è tutta in uno sguardo. Riccardo Muti chiede con gli occhi saettanti. Chiede al coro di cantare «più piano!». Con un gesto del capo, che scuote rapido, rannicchiandosi sul podio quasi a farsi piccolo. Lo chiede con il suo sguardo severo. Che in un attimo poi si placa. Si fa quasi mistico nel rivolgersi verso l’alto. Perché il Va’ pensiero «è una preghiera, è il canto di dolore di un popolo oppresso». Da «dire» con un filo di voce e senza «l’um-pa-pa scanzonato degli ottoni che spesso sentiamo e che lo rendono così volgare». Il canto di un popolo che ricorda una «patria sì bella e perduta», che chiede al «pensiero» di riaccendere «le memorie nel petto», di parlare «del tempo che fu».
E per un attimo, a trentacinque anni da un altro (memorabile) Va’ pensiero (bissato infrangendo il divieto imposto da Toscanini), il tempo (quasi) non sembra passato. Le «memorie» che si riaccendono sono quelle di un altro (memorabile…) Nabucco che nel 1986 segnò l’inizio dell’avventura al Teatro alla Scala di Riccardo Muti. L’avventura di direttore musicale. Finita come è finita nel 2005. Allora, come oggi, era dicembre. In mezzo la vita. La storia. Il tempo. Che è passato, sembra dire oggi Muti con una direzione meditata e dal respiro ampio del capolavoro verdiano agli antipodi da quella corrusca e muscolare del 1986. È passato. E non torna. Capitolo (che vuol dire anche ferite) chiuso.
Forse… perché la scelta di portare la sua Riccardo Muti italian opera academy con il verdiano Nabucco come “libro di testo” a Milano sulla soglia dell’inverno (dopo sei anni nella “sua” Ravenna, sempre in piena estate) proprio nei giorni dell’inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala (quest’anno con un altro Verdi, quello di Macbeth) ha fatto storcere il naso a qualcuno. Non al sovrintendente scaligero Dominique Meyer che era ad ascoltare Muti nell’auditorium di cemento e legno della fondazione Prada di Milano insieme al ministro della Cultura Dario Franceschini e a quello dell’Istruzione Patrizio Bianchi, al sindaco di Milano Beppe Sala, a Mario Monti, a Stefano Boeri, a Roberto Bolle. Quasi una platea da 7 dicembre quella della fondazione Prada diventata «per undici giorni un luogo di ricerca musicale e di approfondimento culturale» come ha ricordato Miuccia Parda che Muti, a fine serata, ha voluto salutare e ringraziare scendendo dal podio.
«Il mio compito stasera è di ricapitolare un lavoro lungo undici giorni per poi consegnarlo ai giovani direttori d’orchestra che con me hanno scavato a fondo nella partitura del Nabucco» ha spiegato Muti a inizio serata. Prima di dirigere l’opera verdiana in forma di concerto (il riverbero del suono del grande spazio industriale è stato “corretto” in parte dall’amplificazione) con l’orchestra Cherubini, il coro Cremona antiqua, le voci di Serban Vasile (appassionato Nabucco), Gabrielle Mouhlen (svettante Abigaille), Azer Zada (Ismaele dal bello squillo e dal legato affascinante), Riccardo Zanellato (impeccabile Zaccaria), Francesca Di Sauro (commovente Fenena), Andrea Vittorio De Campo (Gran sacerdote di Belo dalla voce bellissima e potente), Giacomo Leone (efficace Abdallo) e Vittoria Magnarello (puntuale Anna) «che hanno fatto da cavie per i cinque giovani direttori».
L’italiano Giuseppe Famularo, il britannico Henry Kennedy, l’israeliana Elinor Rufeizen, il rumeno Cristian Spataru e la taiwanese Cj Wu, scelti tra più di duecento candidati. Hanno ascoltato in prima fila il Nabucco di Muti. Che, col tempo, si è fatto solenne, contemplativo, con tempi dal respiro ampio (ma la cabaletta del quarto atto di Nabucco O prodi miei seguitemi è una scarica di energia che ti fa saltare sulla sedia) e colori sbalzati in modo inedito e sorprendente grazie a una Cherubini puntuale e partecipe.
Un Nabucco che è una lunga riflessione (e la forma di concerto si rivela luogo ideale per questo) sul senso delle nostre radici. Le radici del popolo ebreo deportato (e dunque estirpato) a Babilonia, ma anche quelle di Abigaille che si scopre figlia adottiva del re (e dunque senza radici che affondano nel terreno) e quelle di Fenena che si converte (e dunque getta nuove radici). Le radici di tutti noi che ci ritroviamo, ci riconosciamo in una musica che ha dentro qualcosa di atavico, di recondito che riconosci senza capire (razionalmente) perché ti appartiene così profondamente. Che è poi forse il senso più vero e profondo del lavoro che Muti fa ogni volta con i giovani direttori, uno scavare nella partitura che non ha solo un valore musicale, non vuole solo trasmettere i segreti (se poi ce ne sono) del “mestiere” di direttore d’orchestra, ma cerca di rimettere al centro il valore della cultura, della musica – quella di Verdi in particolare – che ha costruito l’identità di un popolo. E continua a farlo anche in tempi di cancel culture, di azzeramento (insensato perché trasversale, omnicomprensivo) di ogni differenza.
Il Nabucco di Muti (certo, di Verdi) ci fa ritrovare, nello scenario post industriale di un’officina della cultura, le nostre radici. Ci dice, ancora una volta, da dove veniamo. E ci indica una strada. Muti lo ha fatto con i cinque giovani direttori che, come ultimo atto dell’Italian opera academy hanno diretto pagine dal Nabucco (e con cinque giovani maestri collaboratori italiani, Raffaella Angelastri, Filippo Bittasi, Linda Piana, Cecilia Pronzato e Giacomo Anglani) con i quali ha lavorato per undici giorni scavando nella partitura. «Per trasmettere ai ragazzi quello che ho imparato dai miei maestri». Anche solo (o soprattutto) con uno sguardo.
Nelle foto @Niccolò Quaresima Riccardo Muti alla fondazione Prada