Inaugurazione di stagione con l’opera di Giuseppe Verdi diretta da Riccardo Chailly come potente marcia funebre Luca Salsi umanissimo Macbeth, Netrebko diabolica Lady Dissensi per la regia tra i grattacieli di Davide Livermore
Macbeth è morto. Ha preso un’ascensore per l’inferno. La tirannia è sconfitta. Il popolo ha un nuovo re. Ma resta dietro una grata. La gabbia del potere, di certo potere che perpetua se stesso e mette a tacere il popolo. Ma c’è (forse) una speranza. Tra le sbarre si apre una porta. Uno spiraglio di luce sul futuro. Ne escono due ragazzi. Cortocircuito tra finzione e realtà perché quelle sbarre non possono non farti pensare a quelle del carcere egiziano di Tora al Cairo dal quale finalmente, dopo 668 giorni, esce Patrick Zaki.
Ancora una volta la realtà, prepotente, irrompe sul palco della Prima del Teatro alla Scala. E non è il Covid. Che pure c’è. Tanto che il protocollo per entrare in teatro è rigidissimo: green pass rafforzato, il termo scanner per rilevare la temperatura, mascherina. La realtà che irrompe alla Prima della Scala è una notizia arrivata dall’Egitto a poche ore dal Macbeth di Giuseppe Verdi che il 7 dicembre ha inaugurato la nuova stagione milanese. Salutata, quella porta aperta sul futuro, da un applauso lungo minuti dodici minuti. Arrivato al termine di una serata carica di emozione. Quella di una Prima che torna in presenza, al 100%, dopo quella dello scorso anno cancellata e sostituita dal gala tv A riveder le stelle registrato a porte chiuse.
Un ritorno a casa che merita un selfie da postare sui social. Tanto c’è tempo, bisogna essere al proprio posto alle 17.30 anche se l’opera inizia alle 18: il foyer deve restare libero per l’ingresso del Capo dello Stato. E alle 18, puntualissimo, Sergio Mattarella entra nel palco reale, salutato da un applauso carico di affetto che dura più di cinque minuti, come accaduto nel 2018 per Attila e nel 2019 per Tosca. Parte l’Inno di Mameli diretto da Riccardo Chailly e cantato a squarciagola dal regista Davide Livermore in platea, mischiato tra il pubblico che saluta Mattarella all’ultima Prima da presidente. La prima Prima di Dominique Meyer, invece, arrivato a Milano a febbraio 2020 giusto in tempo per chiudere la Scala sulla soglia dell’emergenza Covid. Oggi il sovrintendente la riapre accogliendo il pubblico in un teatro che si è vestito a festa con diecimila rose e tremila rami di orchidee. Che spariscono nel buio, come tutto il teatro, quando Chailly attacca le note del Preludio che danno subito il colore della Macbeth del direttore musicale della Scala cupo, sghembo, nero, inquietante, profondo, intriso di inquietudini.
Si apre il sipario e siamo dentro la tragedia. Nera. Nerissima. Un bosco popolato di cadaveri, uno è riverso sul cofano dell’auto di Macbeth e Banco. I due generali hanno fatto la guerra, hanno vinto combattendo con la spada. Perché Livermore racconta la storia (che Verdi prende da Shakespeare) come in un videogame che ti proietta in un mondo futuribile, ma che è anche pieno di tracce del passato. Parte un lungo piano sequenza. Una corsa in auto dalla foresta fino a una metropoli (e qui Macbeth incontra le streghe, moderne segretarie in tailleur) di grattacieli. Visti dall’alto, sui led wall che abbracciano la scena , in un caleidoscopio che ricorda Inception, il film di Christopher Nolan a cui Livermore si è ispirato per questo Macbeth che ha un respiro cinematografico. O meglio, un montaggio e una narrazione da serie tv. Gli ingredienti ci sono tutti il potere, la violenza, l’amore e anche il sesso – che Macbeth e la Lady fanno in ascensore dopo aver proclamato l’«ora di morte e di vendetta».
Uno spettacolo frenetico tra visioni di skyline di metropoli (nelle proiezioni di D-Wok), costumi inequivocabilmente contemporanei (drammaturgici come li ha voluti Gianluca Falaschi) e dove le scene di Giò Forma compongono e scompongono continuamente ambienti e luoghi che emergono dal ventre del palco, salgono e scendono (metafora della scalata al potere) collegati da un ascensore, quello che nel finale porta Macbeth all’inferno. Culmine della lunga, solenne marcia funebre che è la direzione di Chailly, tesa, teatralissima nelle sfumature (di vita, paradossalmente) che chiede agli interpreti per raccontare la morte della pietà. Con lui ci immergiamo negli abissi di Macbeth, che Luca Salsi, con l’intelligenza scenica e musicale del grande interprete, ridisegna da dentro per restituirlo in sintonia con l’oggi in cui lo canta. Lo fa scolpendo magnificamente la parola nella musica per farla diventare teatro (e dunque vita, emozione) e illuminando di un’umanità tanto inaspettata quanto sorprendente Macbeth, fragile, fragilissimo come noi uomini di oggi. Anna Netrebko è una Lady dal carisma sinistro che calamita il male e lo veste di un fascino ancora più inquietante con una voce che affascina e stordisce tra acuti svettanti e pianissimi poetici. Ildar Abdrazakov mette in Banco la nobiltà del suo canto Banco, Francesco Meli offre il suo squillo limpido a Macduff, l’eroe che uccide Macbeth in una battaglia che sa di fine del mondo.
Una visione politica quella di Livermore, accolto da buu e applausi alle uscite finali, che senza fare nomi e cognomi (ma la Scottish tower dove abitano i coniugi Macbeth non può non ammiccare a Trump) mette in guardia dalle possibili derive del potere in uno spettacolo dalla cifra visiva moderna, di forte impatto. Ma a ben vedere tradizionale, tradizionalissimo perché in scena avviene tutto quello che deve avvenire in Macbeth: c’è il temporale che accompagna l’apparizione delle streghe, c’è il brindisi con Macbeth che di fonte agli invitati alla festa vede lo spettro di Banco (e la Lady lo schiaffeggia per riportalo alla realtà), ci sono le profezie (prima le danze, pantomima tra sogno e incubo di Daniel Ezralow, poi una seduta spiritica con tanto di tavolino che si muove) e la sfilata dei re e c’è la battaglia finale raccontata come se fosse la fine del mondo. Poi resta solo un cielo. Rosso. E una porta fatta di sbarre si spalanca sul futuro.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Macbeth
Articolo pubblicato su Avvenire dell’8 dicembre 2021