L’Opera di Roma apre la stagione con la prima mondiale del melodramma ispirato alla tragedia di Shakespeare Daniele Gatti sul podio, regia di Robert Carsen
L’arte è (sempre) politica. Certo, viene facile dirlo vedendo sul palco del Teatro dell’Opera di Roma un emiciclo parlamentare. La “casa” della politica. Uno dei cosiddetti “palazzi” dove chi ci governa sceglie come orientare la nostra vita sociale e civile (e non solo sociale e civile). Nessuna connotazione specifica, però, perché quello disegnato da Radu Borozescu non ha i tratti distintivi né dell’emiciclo di Montecitorio né di quello di Palazzo Madama. Ma è comunque inconfondibile. Italianissimo nei gradoni di legno e nelle sedie imbottite e rosse. Immagine di tanti Parlamenti passati (e futuri, ci dice l’arte che è politica). Dei nostri Parlamenti, dal Risorgimento in poi. Parlamenti non solo fisici, di legno e stoffa, ma fatti di persone, ieri nominate, oggi democraticamente elette. Luoghi dove la politica si confronta (e spesso si scontra) e compie le sue scelte. Che, coerenza vuole (vorrebbe), hanno un prezzo. Da pagare.
Cesare lo paga. Il Giulio Cesare della Roma, prima repubblicana e poi imperiale, del primo secolo avanti Cristo. Ucciso – prezzo da pagare alla libertà e alla democrazia, almeno secondo Bruto e Cassio e i congiurati – alle Idi di marzo. Lo ha raccontato Plutarco primo di una lunga serie di “biografi” che, dalla letteratura al teatro al cinema, vanno da William Shakespeare a Cecil DeMille a Joseph Mankiewicz. Icona, Cesare, di un potere totalitario che opprime. E dunque, eticamente, quasi moralmente da sopprimere… sembra di sentirle risuonare (e non senza un brivido) le parole di certi proclami dei ciclostili degli anni di piombo… Giulio Cesare nostro contemporaneo, dunque. E non tanto (o non solo) perché in scena appare sugli scranni del Parlamento in completo grigio (costumi elegantissimi di Luis F. Carvalho) e con in mano una ventiquattr’ore piena di “carte”. Appare così, icona di tanti politici di oggi nella loro stereotipata immagine, nel Julius Caesar che ha inaugurato la nuova stagione del Teatro dell’Opera di Roma.
Nostro contemporaneo, l’imperatore, perché così lo vuole il compositore Giorgio Battistelli, Leone d’oro alla Biennale di Venezia del prossimo anno, autore dell’opera andata in scena in prima assoluta al Costanzi. Libretto di Ian Burton dalla tragedia di Shakespeare (il drammaturgo inglese ha sfrondato abbondantemente il testo originale, conservandone però il nucleo narrativo), regia di Robert Carsen che confeziona uno spettacolo asciutto e visionario, forse non uno dei capolavori ai quali ci ha abituati, ma che ha il grande pregio di farti uscire dal teatro con la domanda: chi sarebbe oggi Cesare? chi lo assassinerebbe? anche metaforicamente… facendolo fuori politicamente con una manovra di palazzo alla Renzi…
Prima mondiale. Segnale politico – proprio perché l’arte è (sempre) politica – forte, fortissimo quello di Daniele Gatti, direttore musicale dell’Opera di Roma, che ha voluto aprire la nuova stagione, con una prima assoluta (al Costanzi non capitava dal 1901 quando il cartellone fu inaugurato da Le maschere di Pietro Mascagni). Scelta coraggiosa, firma inconfondibile del maestro e quasi “consegna” programmatica per il futuro da parte di Gatti che a fine anno lascia Roma (tra un anno arriva Michele Mariotti) per andare al Maggio fiorentino. Sfida vinta, dicono i dieci e più minuti di applausi (solo un dissenso, isolato, quando alla ribalta si è presentato Battistelli) arrivati dopo due ore e un quarto di musica senza respiro durante le quali nessuno del pubblico ha abbandonato il campo – la mondanità della prima poteva farlo pensare. Segnale politico alla politica (la commissione del 2019 a Battistelli è dell’ex sovrintendente capitolino Carlo Fuortes, oggi amministratore delegato della Rai) per rimettere al centro la musica del nostro presente. Che ha (deve avere se vuole farsi veramente Arte) qualcosa da dire al nostro tempo sul nostro tempo. Anche attraverso una storia della Roma del primo secolo avanti Cristo.
Con Julius Caesar, seconda tappa di una trilogia shakespeariana di Battistelli e Burton iniziata nel 2007 con Riccardo III e che approderà a Pericle, succede. Burton, in un inglese asciutto e comprensibilissimo e non estraneo alla musica (da Haendel a Britten l’idioma britannico torna), racconta la congiura e l’assassinio di Cesare, i discorsi funebri di Bruto e Antonio – e le frasi iconiche ci sono tutte dall’«Et tu Brute?» di Cesare al «Cesare era ambizioso e io l’ho ucciso» di Bruto all’«Amici, romani, concittadini, vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo» di Antonio. Racconta, Burton, la guerra civile e la vendetta del fantasma di Cesare con il suo «Mi vedrai a Filippi», andando visionariamente anche oltre Shakespeare. «Soon they will ALL be dead», «Presto saranno TUTTI morti» profetizza in un inquietante e drammatico finale dove, davanti ad una distesa di cadaveri riversi sui banchi del Parlamento, Cesare si sovrappone (cantano insieme e indossano lo stesso completo grigio) alla figura del nuovo imperatore Ottavio. A dire, anche pessimisticamente, che il potere perpetua se stesso.
Discorso politico al nostro tempo. Che trova nella musica di Battistelli – compositore impegnato (è stato anche candidato sindaco nella sua Albano) e autore di lavori politici, basti pensare al suo Co2 ispirato agli scritti ambientalisti di Al Gore e presentato al Teatro alla Scala per l’Expo 2015 – una perfetta corrispondenza. Musica drammaturgica – e c’è anche una specie di autoironia, sberleffo a chi ritiene noiosa la musica contemporanea, quando il libretto fa dire a Bruto nell’accampamento di Sardi «Questa musica è soporifera». Musica organizzata in un flusso continuo di suono ininterrotto con le scene che si susseguono in dissolvenza l’una nell’altra attraverso interludi orchestrali di grande potenza e bellezza. Musica dove le percussioni e gli ottoni si impongono, dove il canto (alla Britten) è lirico, sempre musicale anche quando diventa declamato secco, dove il coro canta spesso fuori scena fondendosi con l’orchestra e facendosi suono tra i suoni.
Musica che racconta efficacemente gli scarti di umore della folla (il coro arriva a cantare a otto voci per poi fondersi in una, per dire la pluralità del pensiero che poi si fa anche massa), il nero dissonante delle trame di potere, lo stridente fastidio della guerra, ma anche la dolcezza degli affetti (quelli di Calpurnia, la moglie di Cesare, quelli di Antonio e, in certo modo, quelli di Bruto). Intelligentemente furba, la musica di Battistelli, nel non parlarsi addosso (andando oltre gli autocompiacimenti elitari delle avanguardie) per arrivare a tutti con una narrazione fluida (per nulla semplice, intellettuale e concreta al tempo stesso), pur non rinunciando a una scrittura di una complessità incredibile (il coro di Roberto Gabbiani ha iniziato a studiare la partitura già a luglio, l’orchestra è in sala prove, anche a sezioni, da settembre per sviscerare la partitura) tra continui scarti di tempo, serialità tutte da decifrare, trascolorare delle forme, segni da tradurre in suono, mutamenti delle atmosfere e dove l’ispirazione (e le citazioni) spazia da Wagner a Stochkausen arrivando sino a certo rock dei Pink Floyd.
Gatti dal podio tiene magnificamente insieme tutto questo questo in una lettura che non si limita a restituire la musica di Battistelli così com’è, matematica e calcolatissima, ma la interpreta, la traduce rendendo naturale e immediata la complessità della scrittura. Che arriva al pubblico intellegibilissima e chiara. Un flusso continuo di suoni che ti avvolge, ti tira dentro il racconto. Una musica in cui Gatti crede. E si sente (si vede) da come il direttore si butta a capofitto nella partitura, scandagliata nelle sue molteplici possibilità. Il suono orchestrale non sovrasta mai le voci che sono quelle (perfette, ideali per questa scrittura, per questo canto) di Clive Bayley (Julius Caesar), Elliot Madore (Brutus) Julian Hubbard (Cassius), Dominic Sedgwick (Anthony), Michael Scott (Casca), Higo Hymas (Lucius), Ruxandra Donose (Calpurnia) e Alexander Sprague (Octavius) insieme a Christopher Lemmings, Christopher Gillet, Allen Boxer, Scott Wilde e Alessio Verna. Tutti attori fantastici. Veri. Impasto di parola e suono. Perché questo (come tutto il melodramma) è teatro. Teatro musicale. Dove testo e musica si devono fondere nel racconto di una vicenda che va oltre i fatti per interrogare sul nostro presente noi che siamo in platea e che in qualche modo siamo parte dell’azione, folla tra la folla ad osservare il gioco dei potenti.
Ci vuole così Carsen, folla tra la folla (il coro spesso è di spalle) per osservare insieme lo svolgersi dei fatti. La congiura che si compie tra la casa di Bruto, quella di Cesare (che è una sorta di studio ovale tutto in marmo) e il Parlamento, dove i senatori sono in giacca e cravatta, come noi in platea. Come i nostri politici. Il funerale di Cesare, con il cadavere avvolto in una bandiera italiana. E poi la guerra civile. Che Carsen immerge in un buio (è lui a firmare le luci insieme a Peter Van Praet) inquietante, sinistro. In un campo di battaglia metafisico, con la struttura che evoca il Parlamento vista da dietro, ribaltata, nuda nel suo scheletro metallico – a dire, drammaturgicamente, che ogni scelta ha un rovescio della medaglia – dove si muovono politici ai quali per diventare soldati basta un giubbino antiproiettile. Corazza cinica che li tiene al riparo dalla vita. E che si toglieranno solo per uccidersi, persa ogni speranza. Il racconto di Carsen è cinematografico, ha un respiro epico e civile. Politico.
Come la musica di Battistelli. Come la direzione di Gatti. Come la scelta, politica, di un direttore e di un teatro, di inaugurare una stagione con un’opera nuova. Per dire una parola sul nostro oggi con l’arte. Che è (sempre) politica.
Nelle foto @Fabrizio Sansoni Teatro dell’Opera Julius Caesar a Roma