A Bergamo il direttore musicale del Donizetti festival mette sul leggio l’edizione critica dell’Elisir d’amore «Prima di Verdi ha rivoluzionato il melodramma italiano» dice il musicista premiato in Spagna con l’Oscar lirico
«D’accordo, Giuseppe Verdi è stato il grande innovatore del melodramma italiano. Ma la rivoluzione drammaturgica che giustamente attribuiamo al musicista emiliano era iniziata già con Gaetano Donizetti». Riccardo Frizza evidenzia con convinzione il ruolo che il compositore bergamasco ha avuto nella storia dell’opera lirica in pieno Ottocento. «Conosciamo bene il Donizetti musicista, quello di Lucia di Lammermoor e di Don Pasquale, per intenderci, ma poco il Donizetti drammaturgo» spiega il direttore musicale del festival Donizetti opera, convinto che «questo contributo lo si capirà bene vedendo in scena tutto il suo catalogo. Che è quello che da anni stiamo facendo a Bergamo». Dove il 19 novembre Frizza aprirà l’edizione 2021 del festival salendo sul podio per L’elisir d’amore – regia di Frederic Wake-Walker, Javier Camarena è Nemorino, Caterina Sala Adina, Roberto Frontali Dulcamara, Florian Sempey Belcore. «Un’opera alla quale sono particolarmente legato» racconta il direttore d’orchestra bresciano – e la storica rivalità tra le due città lombarde, nel nome della musica, viene messa da parte. Perché Donizetti è entrato nella sua vita molto prima che venisse nominato direttore musicale del festival bergamasco. Certo, perché lo ha diretto molte volte. Ma soprattutto perché «è stato durante un Elisir d’amore a Las Palmas che ho conosciuto Davinia». Davinia Rodriguez, soprano di professione. Oggi moglie di Frizza. «Era il 2005. Due anni di fidanzamento e nel 2007 ci siamo sposati» racconta il direttore che a dicembre compirà cinquant’anni. Prima, però, lo aspetta il Donizetti opera 2021. «Dopo l’edizione 2020 tutta in streaming ritroviamo il nostro pubblico. E con la capienza delle sale finalmente al 100%. Ed è tutta un’altra cosa, l’ho sentito quando ho diretto Rigoletto al Maggio musicale fiorentino, prima opera per me con la platea senza distanziamento: una sala piena alle spalle ti trasmette un’energia unica e insostituibile».
Dopo le passate edizioni con proposte di raro ascolto a Bergamo quest’anno tocca a due opere popolari come Elisir d’amore e La fille du régiment. Una svolta pop, Riccardo Frizza?
«Dopo i mesi difficili del Covid abbiamo pensato a titoli mainstream perché la sfida che ci attende è quella di riportare il pubblico in sala. I timori, inutile negarlo, ci sono ancora. Tanto più qui a Bergamo, la zona più colpita nella prima ondata, una terra che ha pagato un grande tributo in termini di vite umane. In tempo di pandemia, con i teatri chiusi, si è persa un po’ l’abitudine ad andare all’opera o al cinema. In Spagna, dove dirigo spesso e dove di recente ho inaugurato la stagione numero cento del Teatro Real di Madrid con la Cenerentola di Rossini, non è così, perché anche durante i diversi lockdown i teatri erano aperti. In Italia, dove questo non è successo, le persone hanno avuto modo di coltivare altre passioni e altri interessi. Dobbiamo riconquistarle. E per farlo abbiamo pensato a due titoli popolari, per tutti e non solo per addetti ai lavori. Ma ci sarà anche la rarità, la Medea in Corinto di Giovanni Simone Mayr, maestro di Donizetti».
Anche perché una delle linee guide del Donizetti opera è quella di proporre opere in edizione critica, affiancando alla messinscena l’approfondimento scientifico.
«Il grande lavoro musicologico e filologico iniziato gli scorsi anni proseguirà anche in questa edizione. Elisir d’amore lo presentiamo nell’unica edizione critica esistente, quella di Alberto Zedda. Non solo. Lo proponiamo su strumenti originali con l’ensemble Gli originali, appunto, creato appositamente per il festival. Strumenti dell’epoca, intorno al 1830, non ricostruiti, che permettono di ascoltare il suono di allora. Siamo abituati a farlo con Mozart o il Barocco, ma non con Donizetti. Sarà un bell’esperimento per ascoltare Elisir come si è sentito in teatro alla Cannnobiana a Milano alla prima nel 1832. Per quel che riguarda La fille du régiment, che a Bergamo sarà diretta da Michele Spotti, è più complesso arrivare ad un’edizione critica definitiva perché si è perso il manoscritto originale: lo studio della partitura va avanti da più di vent’anni e noi presentiamo per la prima volta il frutto di queste ricerche».
Dunque c’è bisogno di un festival dedicato interamente a Donizetti?
«Certo. Perché occorre far conoscere sempre di più un autore che ha contribuito in modo fondamentale alla storia del melodramma. Devo dire che già si vedono i frutti del nostro lavoro perché alcuni titoli donizettiani, anche di quelli meno frequentati e più ostici, iniziano a rientrare regolarmente nei cartelloni dei teatri dopo che per tanto tempo erano stati esclusi. Penso alle tre regine e tra queste penso alla Bolena che prima facevano solo alcune dive come la compianta Edita Gruberova o Mariella Devia».
Bacchetta di riferimento per il belcanto, la tua, ma nell’agenda di Riccardo Frizza non ci sono solo Bellini e Donizetti…
«Se guardo alla mia carriera è Verdi il compositore che ho diretto di più, avendo fatto 22 delle sue 27 opere. Io mi reputo in generale un direttore d’orchestra, non legato a un certo tipo di repertorio. Al Metropolitan di New York ho fatto il Puccini di Tosca e Bohème. Prossimamente a Budapest dirigerò La fanciulla del West, mentre tornerò a Firenze, in chiusura della stagione invernale, per L’amico Fritz di Mascagni. Certo, all’estero mi chiamano per il repertorio italiano perché c’è ancora questa idea di chiamare bacchette italiane per il nostro melodramma. Il rischio è di restare relegato in un certo territorio, tanto più che se sei un direttore d’opera fatichi un po’ a farti strada nel repertorio sinfonico».
In effetti nella tua agenda c’è soprattutto l’opera.
«Vero, ma nel 2022 ci sarà un’importante novità sinfonica che, però, è ancora presto per annunciare. Penso che un musicista sia davvero completo quando affronta tutto il repertorio, quando studia e dirige diversi generi e diversi autori. Mi piacerebbe approfondire il repertorio sinfonico italiano e ai grandi compositori mitteleuropei vorrei affiancare autori come Giuseppe Martucci e Gino Marinuzzi, poco eseguiti, ma che hanno dato un apporto fondamentale al repertorio sinfonico tardo romantico. Essendo italiani sono un po’ stati fagocitati dal melodramma e dalla figura di Ottorino Respighi. Detto questo mi piacerebbe cominciare ad avere un rapporto stabile con un teatro d’opera».
Intanto c’è il Donizetti opera. Come se la passa un bresciano a Bergamo?
«Nessuna rivalità come da tradizione, però. Tanto più oggi dopo che le nostre due città sono state accomunate dalla grande sofferenza e dalle ferite del Covid. Qui nella prima ondata siamo stati particolarmente colpiti, anch’io e molti dei miei familiari ci siamo ammalti. Un periodo davvero difficile, durante il quale nemmeno la musica mi era di conforto. Mi sono chiesto come mai queste, nella seconda fase, nella terza siano zone risparmiate dal coronavirus. Per me è perché la gente dopo aver vissuto sulla propria pelle la tragedia non ha mai abbandonato le misure di sicurezza, nemmeno in estate, e ha sempre rispettato scrupolosamente i protocolli».
Come vedi, oggi, al di là della crisi portata dal Covid, la situazione della musica in Italia?
«Abbiamo vissuto momenti più bui una decina di anni fa. Adesso per me è un momento positivo. Forse, è vero, non tutte le fondazioni lirico-sinfoniche sono allo stesso punto. Io però mi trovo molto meglio, lavoro bene nei teatri, decisamente meglio rispetto a dieci anni fa».
In Spagna hai vinto il premio Ópera XXI, una sorta di oscar della lirica del paese iberico, come miglior direttore.
«Mi è stato assegnato per la Lucia di Lammermoor di Donizetti, proposta nella tonalità originale scritta dall’autore bergamasco, che ho diretto nel 2019 a Bilbao. L’ho ricevuto al Teatro de la Zarzuela di Madrid l’11 settembre, giorno del compleanno del mio maestro Gianluigi Gelemetti che era scomparso proprio un mese prima. È stato emozionante. Un premio inaspettato, ma che mi riempie d’orgoglio perché, pur dirigendo regolarmente in Italia dove mi sento considerato, devo molto professionalmente alla Spagna».
Non solo professionalmente, dato che lì hai conosciuto tua moglie. Cosa significa passare la vita al fianco di una cantante lirica?
«Quando ho conosciuto Davinia lei faceva soprattutto pop, pochissima opera. L’ho convinta io a lanciarsi nella lirica perché aveva una grande voce. Raramente mi chiede consigli, studia da sola, ha un carattere forte. Facciamo entrambi un lavoro che ci piace e quindi ci capiamo benissimo e anche quando ci capita di essere lontani per diverso tempo non ci pesa più di tanto perché sappiamo che l’altro sta facendo qualcosa di importante per la propria vita. A casa cucino io, perché la cucina è una delle mie passioni».
Insieme alla musica… e all’Inter.
«L’Inter è una fede. Quando avevo due anni un parente interista mi regalò un salvadanaio nerazzurro. In quel momento ho sentito l’appartenenza ad una squadra. Durante le scuole superiori, poi, erano gli anni della grande Inter di Trapattoni e ogni lunedì mattina si arrivata in classe con la Gazzetta. Appassionato, ma non calciatore. Ho giocato a basket per 10 anni, ma poi ho lasciato perché mi rompevo troppo e non potevo più suonare il pianoforte».
Come vedi l’Inter di Inzaghi?
«Direi abbastanza bene. Sono contento. Abbiamo perso un attaccante, ma ne abbiamo trovato un altro. Abbiamo salutato un allenatore, ma con il nuovo abbiamo ingranato. Sarà fondamentale ritrovare un po’ più di equilibrio. La squadra per me gioca meglio rispetto allo scorso anno. Sono fiducioso. E, incrociando le dita, anche quest’anno rischiamo di vincere il campionato».
Sei tornato a San Siro?
«Non sono ancora. Troppi impegni in agenda. A casa, però, sono arrivate due maglie, una per me e una per mia figlia Sofia e le ho promesso che in primavera la porterò allo stadio. Non vedo l’ora».
Nella foto @Micherle Monasta il direttore d’orchestra Riccardo Frizza