A Milano recital straordinario del musicista argentino interprete analitico delle utlime tre Sonate per pianoforte
Un trattato. Senza parole. Un trattato di musicologia… in musica (come dovrebbe essere?). Con un’idea – e una sola – chiara. Chiarissima. Illuminante, se ancora ce ne fosse bisogno. Le ultime tre Sonate per pianoforte di Ludwig van Beethoven sono una cosa unica. Un corpo unitario. Tre parti di un discorso fondante con il quale il compositore tedesco getta le basi del futuro. E così vanno ascoltate. Insieme. Tutte d’un fiato. Idea semplice, teoria esposta e dimostrata, al pianoforte come un teorema matematico – ma forse dovrebbe essere un postulato indimostrabile. Ecco l’essenza del concerto che Daniel Barenboim ha tenuto giovedì 4 novembre al Teatro alla Scala. Improvvisando (ma in realtà no perché sono pagine che padroneggia con una straordinaria e innata naturalezza) un programma pianistico per sostituire l’integrale delle Sinfonie di Johannes Brahms che il musicista argentino, nelle vesti di direttore d’orchestra, avrebbe dovuto proporre al Piermarini con la sua (sua perché ne è direttore principale a vita) Staatskapelle di Berlino. Un «sospetto caso di positività al Covid» tra i musicisti tedeschi ha suggerito di sospendere prudentemente i due concerti per le verifiche sanitarie del caso. Concerti che saranno recuperati in seguito. Ma Barenboim si è reso disponibile a un recital per non lasciare il pubblico senza musica.
La teoria, messa sulla locandina, dove compaiono una di seguito all’altra la Sonata in mi maggiore op. 109, la Sonata in la bemolle maggiore op.110 e la Sonata in do minore op.111. Composte da Beethoven tra il 1820 e il 1821. Le ultime tre pagine di quel viaggio entusiasmante e sconvolgente che sono le Sonate per pianoforte beethoveniane. Un viaggio che Barenboim ha compiuto più volte, in disco e dal vivo, anche alla Scala negli anni della sua direzione musicale. Eseguite questa volta (ed ecco la dimostrazione) in concerto dal pianista argentino senza intervallo. Un’ora e un quarto di musica tutta d’un fiato, interrotta solo dagli appalusi che, forse, a pensarci una volta fuori dal teatro, avrebbero potuto anche non esserci. Per rendere ancora più unitario il discorso musicale proposto dal musicista. Tanto che se tra la 30 e la 31 Barenboim esce per un attimo dal palco, spente le note della 31 resta in proscenio, si prende gli applausi (non così calorosi, però, come quello lunghissimo finale perché forse il pubblico sentiva questo bisogno di unitarietà, chissà) e subito si siede per attaccare la 32.
Un discorso unitario che Baremboim fa sul “suo” pianoforte, il Barenboim, appunto, realizzato nel 2015 su progetto dello stesso pianista dal costruttore belga Chris Maene, in collaborazione con Steinway & Sons sul modello degli antichi pianoforti Erard a corde parallele. Tre tappe di una riflessione musicale che Barenboim restituisce quasi in forma di appunti, di schizzi per un futuro tutto da costruire. Qui c’è tutto (o almeno tanto) di quello che la musica sarà dopo Beethoven. E sentendo certe “improvvisazioni” che Barenboim fa nell’Allegro della 111 penseresti persino al jazz. Perché in queste pagine non c’è il Beethoven che si è ascoltato sino a lì, c’è il Beethoven che si interroga sul linguaggio e sulla forma da far diventare messaggio. Tanto che sul tavolo del compositore negli anni delle ultime tre Sonate ci sono anche la Nona e la Missa Solemnis. Barenboim, che ha una tecnica di cristallo, basta ascoltare i trilli infiniti e sgranati del finale della 111 (e se qualche sporcatura c’è serve solo per aumentare l’emozione) padroneggia magnificamente la scrittura beethoveniana (è bastata una prova di “assestamento” la sera prima del concerto) e può restituirla (inutile dire che suona a memoria) con la grande libertà di un interprete che, pur non dimenticando il passato, sa superarlo per far dialogare Beethoven con il presente. Il suo presente e della musica che lo ha accompagnato nel tempo e il nostro presente di ascoltatori che cerchiamo nelle note una chiave di lettura per il nostro oggi.
Tanti gli spunti offerti da Barenboim. Che alla fine, davanti a un lungo, calorosissimo applauso (e lui ricambia con le braccia allargate quasi a voler abbracciare il ritrovato pubblico milanese) chiude, sorridendo, il coperchio del pianoforte e ripone lo sgabello sotto la tastiera. Dopo un simile viaggio anche solo una nota in più sarebbe davvero di troppo.
Nella foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Daniel Barenboim