Sesto Quatrini dirige Bellini con il soprano americano Nicola Berloffa porta le vicende nel Risorgimento italiano
Niente rogo per Norma. Ma una fine, se possibile, ancora più atroce. Alla sacerdotessa, che ha tradito la sua consacrata verginità amando Pollione e diventando madre di due figli, il regista Nicola Berloffa riserva una fine barbara. Disumana. Perché Norma, la Norma raccontata da Vincenzo Bellini nella sua opera più popolare – e, per uno strano contrappasso, la più difficile da ascoltare dal vivo per i fantasmi (callasiani) che la accompagnano – non si avvia volontariamente verso le fiamme. Ma, una volta confessata la sua colpa, viene linciata dalle donne del suo popolo, sacerdotesse della sua stessa religione. Uccisa a mani nude sull’altare del sacrificio mentre il padre di lei, Oroveso, sgozza – altra pratica barbara – Pollione. Uccisa, Norma, perché ha amato. Uccisa da donne come lei che, messaggio devastante e attualissimo, non capiscono l’amore. Un amore profondo. Di quelli che ti cambiano la vita – tanto che ti viene il sospetto, seguendo la storia, che Norma non voglia subito la guerra perché tra gli occupanti c’è l’uomo che ama. Un amore diverso, però. Inconfessabile per un certo tipo di società – serve sottolineare la drammatica contemporaneità di una simile cecità? Un amore che, dunque, merita la morte. Silenziato. Soffocato. Linciato. Sgozzato. Come Norma. Come Pollione.
Ultima, potente immagine della Norma con la regia di Nicola Berloffa, la bacchetta (felice, rivelatrice, fuori dagli schemi di certo belcanto) di Sesto Quatrini e Angela Meade (attesissima e non ha deluso le aspettative, distaccandosi, intelligentemente dal modello Callas per fare una sua Norma) nei panni della protagonista. Spettacolo che ha inaugurato la nuova stagione del Teatro Municipale di Piacenza (riapertura coincisa con il ritorno della capienza della sala al 100%) prima di andare in scena a Modena al Comunale e, la prossima primavera, al Regio di Parma. E molti erano i melomani in trasferta a Piacenza, anche da Milano per questa Norma, messa in scena con coraggio da Piacenza, Modena e Parma, teatri che coproducono lo spettacolo nato per il Teatro di San Gallo in Svizzera e che, dopo aver girato la Francia, arriva ora in Italia in una versione rivista e ricalibrata per far fronte alle normative Covid.
Resta la sostanza. Resta la potenza di un racconto per immagini. Forti, come quella finale. Pollione sgozzato a terra. Norma soffocata dalle donne sull’altare. Oroveso impietrito, non una lacrima, perché piange dentro. Non perdona. Figura emblematica di una società barbara – perché tale è quella che, anche evangelicamente, non sa comprendere, non sa perdonare a chi ha «molto amato», come la peccatrice che lava i piedi a Gesù – che Bellini (insieme al suo librettista Felice Romani) racconta al tempo di galli e romani e che Berloffa trasporta in pieno Ottocento. In un Risorgimento di lombardi e austriaci – e il riferimento iconografico è il Luchino Visconti di Senso, ma anche, per atmosfere e suggestioni evocate dai bellissimi costumi di Valeria Donata Bettella, de Il gattopardo. Epoca di grandi ideali politici, di lotte per affermare un’idea sacrosanta di patria (e di libertà) che rischia, però, di dimenticare l’uomo. Un Ottocento che, nella sua perfetta, elegante, compita formalità si rivela la cornice ideale per raccontare un mondo di apparenze (di sepolcri imbiancati) dietro le quali si celano fragilità enormi. Quelle messe in musica da Bellini. Quelle che viviamo, noi, oggi.
Fragilità inconfessabili di un mondo in frantumi. Come il palazzo nel quale Berloffa ambienta le vicende – lo ha disegnato con bel gusto e grande attenzione al particolare Andrea Belli, lo ha illuminato Marco Giusti con tagli di luce poetici che lasciano spazio a squarci quasi psichedelici nei rossi che improvvisi colorano la scena. Monumentale, ma in rovina: a terra le macerie di muri sgretolati, assi di legno inchiodate alle finestre. Trincea di guerra, quartier generale di un esercito (i galli/lombardi) sghembo e zoppicante, fatto di soldati feriti e donne che con nobile dignità compiono un rito funebre. L’ennesimo morto – bello, giovane, dal futuro reciso dalla guerra – che scatena la rivolta. Norma canta il suo «Casta diva» sul cadavere del soldato e la celebre aria diventa un lamento funebre, orazione civile, invocazione di una «pace che regnar tu fai nel ciel» che la sacerdotessa chiede sapendo di non poterla ottenere. Soffocata, questa preghiera, dal «Guerra! Guerra!» (qui il coro del Municipale di Piacenza in parte si riscatta dopo un primo atto molto faticoso, con attacchi sporcati ed evidenti scollature con la buca, specie nel Casta diva) che prelude al drammatico, inaspettato, commovente finale. In mezzo la parabola di Norma, una donna che ama, ferita dal tradimento. Determinata nella vendetta, ma poi vinta ancora una volta dall’amore. Coerenza, nel scegliere la morte ammettendo il suo errore, che evoca una coscienza civile che, guardando certa politica, appare irrimediabilmente persa.
Una parabola tra pubblico e privato. Le scene “politiche” nel cortile del palazzo – e anche il duetto tra Pollione e Adalgisa che lì avviene si colora di questa tinta, non solo dichiarazione d’amore del condottiero alla giovane ministra del tempio, ma in qualche modo incontro/scontro di civiltà. Quelle intime nella camera di Norma, scena nella scena, tre pareti (due sedie e il letto dei bambini che Norma vorrebbe uccidere, gesto che non compie, fermandosi un passo prima di Medea) in mezzo a quelle del grande edificio in rovina dove deflagrano sentimenti e conflitti che scatenano la tragedia. La descrive Berloffa in uno spettacolo che ha il grande pregio di raccontare chiara e immediata la storia messa in musica da Bellini. Come fa dal podio della (puntuale e precisa) Orchestra filarmonica italiana Sesto Quatrini. Una lettura dal passo teatrale sempre efficace, drammaturgicamente a piombo con la storia nel raccontare tutti i colori dei sentimenti quella del direttore romano che sbalza in orchestra tutte le raffinatezze della scrittura belliniana, ma che allo stesso tempo non teme di affondare la bacchetta in un suono dalle intemperanze prerisorgimentali, mostrando giustamente (una volta di più) come Bellini prepari la strada a chi verrà dopo di lui.
Sempre attento, Quatrini, ad accompagnare il canto, facendone un tutt’uno, in un dialogo continuo, con il suono orchestrale. Canto che Angela Meade, con il suo fiume di voce, porge con una tecnica stupefacente tra acuti sicuri, sfumati in poetici pianissimi, fiati lunghissimi, legati e fraseggi sempre appropriati alla scrittura belliniana. Il soprano americano (l’impostazione è chiara, ma governata con intelligenza che ha attinto alla lezione “italiana”) propone la “sua” Norma che non è un clone (perché sarebbe impossibile) della Norma dalla statura tragica e dolente di Maria Callas, ma nemmeno puro, etereo (e forse un po’ noiosetto) belcanto: la Norma della Meade (che, però, non propone il da capo di «Ah bello a me ritorna» né quello del «Già mi pasco ne’ tui sguardi» nel duetto finale con Pollione) è una donna combattuta, che ama e odia Pollione, Adalgisa, Oroveso, i figli, una donna che combatte contro il mondo e che, scegliendo di soccombere, vince.
Stefano La Colla è un Pollione che alterna momenti vocali di notevole bellezza (voce piena, di bel colore, voluminosa) ad altri in cui il tenore (un lirico spinto qui alle prese con il belcanto, come spesso succede quando si deve cercare un interprete per il ruolo del proconsole romano) appare in difficoltà. Come succede, specie negli acuti (che arrivano molto forzati), a Paola Gardina, interprete mozartiana e rossiniana di grande sensibilità, ma forse non pienamente a suo agio con Adalgisa, personaggio che comunque il mezzosoprano disegna con bel fraseggio e buone intenzioni. Non sbaglia un colpo, invece, Michele Pertusi, che offre la sua voce pastosa e brunita a Oroveso, dando al padre di Norma un rilievo e un peso musicale insostituibili, seppur non siano poi così tanti i momenti che Bellini gli riserva. Piccoli interventi, resi efficacemente, anche per Didier Pieri e Stefania Ferrari, Flavio e Clotilde.
Figure di un Ottocento rivoluzionario. Barbaro. Spietato. Cieco nel dimenticare, nella concitazione delle battaglie politiche, l’uomo.
Nelle foto @Cravedi/Verile Norma al Municipale di Piacenza