Al Teatro la Fenice grande prova del baritono Luca Salsi protagonista della radicale rilettura dell’opera di Verdi
Rannicchiato a terra. Solo con i suoi fantasmi. Quelli che gli affollano la mente – li vede lui, li vediamo anche noi. Li vede dal giorno in cui, i piedi immersi nella terra della fossa che ha scavato con le sue mani, ha trovato la figlia morta, avvolta nel sacco nero dentro il quale avrebbe dovuto esserci il cadavere del suo nemico. Aveva assoldato un sicario per ucciderlo perché gli aveva disonorato la figlia. Ma per uno strano gioco del destino il sicario ha ucciso proprio la ragazza. E si sa, il dolore di un genitore che sopravvive ai propri figli è qualcosa di innaturale. Di talmente innaturale che Rigoletto – sì, quello dell’opera di Giuseppe Verdi – impazzisce. Lo vediamo così, rannicchiato a terra, in un’enorme stanza di uno di quelli che una volta si chiamavano manicomi. Ne ha tutto l’aspetto. Austero. Un letto da ospedale, bianco con le lenzuola bianche. Le sbarre alle finestre, bianche. Le pareti di mattoni bianchi. Tutto di un bagliore asettico. Bianco, appunto. Il colore dell’infinito. Il colore del nulla. Che tutto livella. Il colore muto, rumore di un silenzio ovattato – come accade in un paesaggio innevato. Quasi rassicurante, capace di cullare.
Ed eccolo Rigoletto, cullato dal bianco, all’inizio del racconto di un giorno di ordinaria follia che è la regia del capolavoro verdiano immaginata da Damiano Michieletto, in scena ora – ed è la prima volta che lo spettacolo arriva in Italia dopo il debutto ad Amsterdam nel 2017 – al Teatro La Fenice di Venezia. Un giorno uguale a tutti gli atri giorni nei quali, nell’idea del regista veneziano, Rigoletto è condannato (perché si è condannato da solo con la vendetta che gli si è rivoltata contro) a rivivere continuamente i fatti che lo hanno portato sull’orlo del baratro, nel tunnel (senza uscita?) della follia. E noi con lui. Perché vediamo la vicenda dal punto di vista del giullare, che è uno straordinario Luca Salsi (sempre – o quasi – in scena), qui alla sua miglior prova di attore di sempre. Anche la sua miglior prova musicale di sempre? difficile dirlo dato i tanti successi collezionati dal baritono emiliano che qui offre un’interpretazione toccante, piegando la sua voce (e il suo fiume in piena di suono) a uno scavo psicologico del personaggio. Per portarci nella follia di Rigoletto. Dove oggi è uguale a ieri e domani sarà uguale ad oggi. All’infinito. Perché ogni volta il tema (musicale) della maledizione (che apre e chiude in un cerchio perfetto la partitura che Verdi scrisse proprio per la Fenice nel 1851) evoca un dolore. Evoca una storia. Che sempre ricomincia. Necessariamente e inesorabilmente. Perché ripeterla sembra l’unico modo per provare ad afferrarne (se ci fosse) il senso. Ma questa storia – razionalmente – un senso non ce l’ha. Un senso umanamente comprensibile, almeno, che vada al di là di parole come maledizione (che è superstizione) e vendetta. Solo la follia, forse, solo lo sguardo di chi, annebbiato nel qui ed ora, vede oltre il tempo e lo spazio, può provare a scavare dentro i fatti.
Lo fa (con Michieletto) Rigoletto. Nella sua follia. Rivivendo, all’infinito, una storia che oggi finirebbe direttamente nelle pagine di cronaca nera dei giornali o, ancora meglio, in quelle trasmissioni tv che raccontano la vita in diretta o ricostruiscono, magari con un plastico, il crimine, facendo schizzare in alto gli ascolti. È vero, si chiama Rigoletto – adattamento del Triboulet, il giullare del dramma di Victor Hugo Le roi s’amuse a cui Verdi si ispirò –, ma potrebbe avere benissimo il nome di un criminale comune di oggi. Perché quella che Michieletto racconta in scena – prendendo alla lettera la vicenda del libretto di Francesco Maria Piave – è la storia (drammaticamente attuale visto quello che ogni giorno accade) di una violenza, quella di un padre che tiene segregata la propria figlia. Per troppo amore, forse. Ma sempre violenza è. E che, inevitabilmente, si rivolta contro chi la compie. E lo conduce alla follia.
Perché Gilda – lo sappiamo dato che Rigoletto è una delle opere più popolari di Verdi – sfugge alle catene del padre, viene sedotta dal Duca di Mantova (che lei crede essere uno studente povero), rapita dai cortigiani, portata a palazzo dove si trova catapultata nel letto del Duca – perché quella di Rigoletto è una storia torbida, di miserie umane, di desideri che governano il comportamento degli uomini. Non solo. Confessa al padre il suo disonore (appunto) e Rigoletto medita vendetta, assoldando Sparafucile per uccidere il Duca. Gilda lo scopre, ascolta il sicario che promette alla sorella Maddalena (anche lei innamorata del Duca) di uccidere un viandante al posto del nobile e si sacrifica, facendosi pugnalare. Così Rigoletto si ritrova nel sacco il cadavere della figlia. E – ecco la mano registica di Michieletto – impazzisce. Condannato a rivivere in loop (tanto che lo spettacolo potrebbe non finire mai, ricominciando ogni volta da capo) tutti questi fatti. Li mette in fila, nella sua follia, uno dopo l’altro. Nella stanza del manicomio. Dove si materializzano i fantasmi che gli affollano la mente – entrano in scena dagli squarci che si aprono nelle pareti della stanza. Dove le sue ossessioni prendono forma, tanto che tutti i cortigiani hanno il volto del Duca, il nemico da annientare, ma che alla fine ha la meglio su Rigoletto – lo dice l’acuto che chiude la terza ripresa, fuori scena, del suo La donna è mobile, motivo che fa scattare in Rigoletto un tic nervoso perché risveglia in lui il trauma. Li vediamo anche noi. Come vediamo un medico che poi prende le sembianze di Sparafucile, un’infermiera che si sovrappone a Giovanna, un Monterone che, lanciando la sua maledizione si mette una gobba e diventa perfettamente speculare (anche nei vestiti e nella stampella e nella scarpa ortopedica) a Rigoletto.
E vediamo apparire Gilda. Prima una Gilda bambina, senza volto. Inquietante nella maschera neutra che porta sul viso. Incubo che si materializza già all’inizio quando esce da quel sacco nero che Rigoletto vede nei suoi incubi – muore l’innocenza, muore la purezza pensi e quasi vorresti girarti dall’altra parte. Gilda ha un vestito giallo con fiori rossi e azzurri – stessa stoffa del lettino che si fa in scena sul letto dell’ospedale, dentro il quale sarà risucchiata nella scena del rapimento, altra visione/allucinazione del padre. Unica macchia di colore nel bianco della scenografia (bellissima e complessa nella sua apparente semplicità) di Paolo Fantin e nel bianco dei costumi di Agostino Cavalca. Gilda che vediamo ragazza (Claudia Pavone che le da’ voce ha lo stesso abitino) e poi di nuovo bambina, in un continuo sdoppiamento temporale (cha ella fine si azzera perché nella mente di Rigoletto il tempo non ha più nessuna connotazione) e spaziale, immagine tridimensionale in scena, illusione bidimensionale nei video che scorrono sulla parte di fondo, prolungamento della mente di Rigoletto che continua a macinare immagini. Colorata, Gilda, come i disegni di lei bambina (Rigoletto li conserva in una valigia sotto il letto e noi li vediamo proiettati sulla parte di fondo della stanza) che ritraggono una madre (che non ha mai conosciuto) senza volto, subito annerita e cancellata dalla memoria con una matita nera. Fanno da sfondo, questi disegni, al «Cortigiani vil razza dannata» che Rigoletto canta solo, chiuso nel suo dolore, chiedendo pietà a chi non può aiutarlo.
Tanti simboli. Tante suggestioni. Che Michieletto mette in scena portando fino in fondo la sua idea iniziale. Forte, estrema. Anche discutibile, certo perché spiazza, perché non mette in scena il “solito” Rigoletto. Ma coerente. Sino al tocco poetico (e anche un po’ ruffiano, diciamolo) del finale, capace di strappare la lacrima, quando (in un video in bianco e nero) Gilda morente, finalmente libera dalla prigione del padre (e dalla prigione del corpo…) può uscire di casa e correre, attraverso una pineta, verso il mare – immagine che Michieletto ha usato anche nel Rigoletto messo in scena lo scorso anno al Circo Massimo per l’Opera di Roma e che arriverà, nella versione film, alla Festa del cinema della Capitale. E tutto torna in questo giorno di ordinaria follia.
Raccontato in musica dal podio – orchestra della Fenice in gran forma, coro puntuale – da Daniele Callegari che sceglie un ritmo serrato e incalzante, perfetto per la narrazione scenica di Michieletto. Un Verdi senza respiro (e senza acuti e puntature di tradizione, per fortuna) che non ti lascia tregua, che non concede nulla al sentimento. E se a volte vorresti qualche raffinatezza in più, qualche dettaglio maggiormente cesellato, poi desisti perché capisci che striderebbe con quello che vedi sul palco. Dove giganteggia Luca Salsi. Sempre (o quasi) in scena, eroico nel disegnare in una grande prova d’attore un uomo piegato e piagato dalla follia, Salsi entra ed esce continuamente dal Rigoletto folle per entrare nel Rigoletto della narrazione verdiana che, a sua volta, è sdoppiato tra il giullare che a corte indossa unna maschera e il padre ossessivo che in casa vessa la figlia. Un moltiplicarsi di caratteri che il baritono rende alla perfezione con il suo timbro caldo e avvolgente, con mezze voci, filati sul fiato, rifiniture del canto da brivido. Restano scolpiti nella mente i due grandi monologhi, il Pari siamo e il Cortigiani, entrambi detti in una solitudine straniante.
Attorno a lui un cast capace di aderire al disegno registico e alla lettura incalzante dettata dal podio da Callegari. Gilda ha gli accenti dolenti e passionali di Claudia Pavone, il Duca di Mantova la spavalderia (della voce e dell’acuto) di Ivan Ayon Rivas. Mattia Denti prova a dare un colore meno nero a Sparafucile, Valeria Giardiello disegna una corretta Maddalena. Affollano gli incubi di Rigoletto la Carlotta Vichi (Giovanna), Gianfranco Montresor (Monterone), Armando Gabba (Marullo), Marcello Nardis (Borsa), Matteo Ferrarar e Rosanna Lo Greco (il conte e la contessa di Ceprano), Emanuele Pedrini (un usciere), Sabrina Mazzamuto (un paggio). Tutti nel tunnel della follia. Noi, a guardarli, affacciati sul baratro di Rigoletto.
Nelle foto @Michele Crosera Rigoletto al Teatro La Fenice di Venezia