Prima assoluta del balletto del compistore Fabio Vacchi ispirato al romanzo sulla ragazza cecena della de Villepin Coreografia tra carne e spirito di Mauro Bigonzetti Protagonisti intensi Antonella Albano e Roberto Bolle
È un grido muto, che non ha suono, il grido di Madina. Un grido che, paradossalmente, fa ancora più male. Perché ti arriva dentro con il silenzio carico di dolore di un’immagine potente, bocca aperta, occhi spalancati sul nulla, corpo rigido e sghembo. Il corpo di Madina, oggetto della violenza di chi le sta intorno. Grida la ragazza cecena perché i soldati russi che occupano Grozny abusano di lei dopo aver violentato e ucciso la sua amica Zarema. Grida perché lo zio Kamzan, capo dei ribelli, la costringe ad indossare una cintura esplosiva per farsi esplodere in mezzo ai suoi aguzzini. Grida perché non ce la fa ad azionare l’innesco, si toglie la cintura che scoppia in mano ad un artificiere. Grida dietro le sbarre della prigione, condannata a vent’anni di carcere. Grida perché ha paura. Grida per dire non alla violenza, a qualsiasi violenza, Madina. Un grido necessario, oggi più che mai. Perché non passa giorno senza notizie di violenze, sulle donne, sui loro corpi; di violenze di chi pensa che il terrorismo sia strumento della fede; di violenze di chi vuole imporre la democrazia con le armi.
Storia vera quella della ragazza di Grozny, raccontata nel 2008 da Emmanuelle de Villepin nel romanzo La ragazza che non voleva morire. Romanzo che ora diventa un balletto in scena in prima assoluta al Teatro alla Scala che lo ha commissionato al compositore bolognese (ormai milanese di adozione) Fabio Vacchi e al coreografo Mauro Bigonzetti – Madina, progettato dall’allora direttore del ballo Frederic Olivieri, doveva debuttare a marzo 2020, ma l’emergenza Covid ha rimandato sino ad oggi il varo. Era pronto, è rimasto per un anno e mezzo dietro le quinte. Ma anche nell’anima dei danzatori scaligeri dove so è sedimentato. É maturato, è diventato carne. É diventato vita. Perché è questo che Antonella Albano, Roberto Bolle, Gabriele Corrado, Martina Arduino, Gioacchino Starace e tutti i danzatori (nessuno escluso… e sono tanti, magma di corpi che vibrano insieme) del Corpo di ballo di Manuel Legris.
Molto di più di un balletto quello che si è visto in prima mondiale sul palco ella Scala. Teatro-danza dove si fondono (in modo efficace e naturale) musica, movimento e parola. Per raccontare un dramma che dal particolare si fa universale, in un continuo dentro e fuori quasi brechtiano dalla narrazione: non assistiamo a una storia lineare con un inizio e una fine, ma alla riflessione che i protagonisti fanno sui fatti a bocce ferme, evocandoli e analizzandoli come al microscopio, traendo da essi suggestioni che vanno oltre la consequenzialità temporale degli avvenimenti. Così siamo dentro la mente dei protagnisti, nei loro sogni e nei loro incubi. Nei loro pensieri, nelle loro speranze. Incarnate da un magna indefinito di corpi, continuamente cangiante. Magma che diventa immagine della morte (di un inferno e, forse di un paradiso) che inghiotte e restituisce i protagonisti nella loro essenza, nudi. Come i corpi dei danzatori scaligeri che, tolti gli abiti di scena, restano inermi, con il (loro) dolore a fior di pelle.
Vacchi e Bigonzetti, rileggendo il romanzo della de Villepin, lo tasfigurano, facendolo doiventare unioversale, emblema del contrasto tra Oriente e Occidente ancora attuale, visto quello che è successo di recente in Afghanistan. Perché quella di Madina è sì la storia di una violenza, fisica e psicologica (e in scena la vediamo, dura, ruvida, ma evocata con un certo pudore da Bigonzetti), ma è anche la storia di una sconfitta, quella di una società dove non ci sono buoni e cattivi, vittime e carnefici. Tutti hanno una parte di colpa. Tutti hanno un germe di bontà. E, vedendo come Vacchi e Bigonzetti raccontano in scena il dramma di Madina, senti quasi risuonare l’evangelico «chi è senza peccato scagli la prima pietra». Di fronte al quale tutte le certezze crollano.
Come i corpi dei danzatori del Corpo di ballo del Teatro alla Scala che alla fine, dopo un’ora e venti di musica e parole e movimenti e immagini senza respiro (scene, luci e video geometricamente inquuietanti di Carlo Cerri, costumi senza tempo né luogo di Maurizio Millenotti), cadono a terra. Madina è in proscenio, sola, piegata sul cadavere dello zio Kamzan, la bocca aperta, gli occhi spalancati. E grida il suo dolore. Grida anche la musica di Vacchi (momenti sinfonici, dazne, arie, cori, melologhi per voce recitante e strumenti, summa del talento del musicista), sempre perfettamente leggibile, marchio di fabbrica, questo non parlarsi mai addosso, del compositore (sempre attento a mettere nei suoi lavri una dimensione etica e sociale) a dire che certe avanguardie non solo sono superate, ma (forse) non hanno nemmeno lasciato traccia. Musica – la dirige Michele Gamba con l’orchestra sistameta anche nei palchi di proscenio e i cori registrati, che il direttore ascolta in cuffia per sincronizzarla agli strumenti – che grida un dolore. Quasi un fastidio fisico quello di questo suono che, prepotente, ti investe. All’inizio ti fa sobbalzare. Alla fine, dopo una tensione sempre in crescendo, deflagra – un mondo che implode in un big bang al rovescio – perché la forza e la potenza che si sono accumulate in un’ora e venti di musica non si possono più contenere. Musica fatta di carne (gli squarci lancinanti delle danze e degli interludi) e spirito (i cori, bellissimi, intrisi di una spiritualità universale).
Come di carne e spirito è fatta la scrittura coreografica di Bigonzetti, tesa, visionaria, una sorta di radiografia dell’anima dove i personaggi vanno e vengono da un aldilà che è quell’inferno (o quel paradiso) di corpi, reso con perfetta plasticità dal Corpo di ballo scaligero, che si è identificato in modo impressionante nel linguaggio di Bigonzetti (era stato il loro direttore e per loro aveva creato una Cenerentola). Il gesto spezzato, verticale, geometrico del coreografo romano qui è portato ancora più all’estremo. Il movimento è fisico, carnale, duro. Perfettamente reso nel continuo confronto/scontro di corpi dai protagonisti. Antonella Albano, intensa e toccante, è Madina: la prima ballerina scaligera conferisce al personaggio la durezza di chi ho soffertocon un movimento che mette da parte la morbidezza classica per farsi immagine del dolore che scava dentro. Roberto Bolle, che fa suo il linguaggio di Bigonzetti, per la prima volta veste i panni di un cattivo: l’étolie è Kamzan (inedita barba a incorniciargli il volto, tatuaggio al braccio) e piega la sua eleganza innata alla ruvidezza fisica e morale del capo dei ribelli. Gabriele Corrado è Sultan, padre di Kamzan, Martina Arduino e Gioacchino Starace sono Olga e Louis, la zia di Madina e il giornalista chiamati a raccontare la storia della ragazza. Personaggi che si moltiplicano nelle voci in scena: quella dell’attore Fabrizio Falco che dice il testo della de Villepin, e quelle del mezzosoprano Anna Doris Capitelli e del tenore Chuan Wang che restituiscono i momenti salienti della vicenda e per le quali Vacchi scrive arie e duetti dalla linea essenziale, dalla forza quasi cronachistica. Per raccontare la storia di una violenza.
Madina grida, in silenzio, sola in proscenio, la bocca aperta, gli occhi spalancati. E chiede a noi di dare voce al suo grido muto.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Antonella Albano e Roberto Bolle in Madina
Articolo pubblicato in gran parte su Avvenire del 3 ottobre 2021