La direttrice d’orchestra messicana nata a New York dirige laVerdi e racconta il suo impegno civile in musica
Racconta, Alonda de la Parra, che ogni volta che sale sul podio, in Australia o a Milano o a New York, poco importa, cerca di tornare con la mente «ai giochi che da bimba facevo con i nonni. Con il nonno ci mettevamo in uno spazio piccolo, un metro quadrato in un disimpegno di casa, e dopo aver chiuso le porte facevamo finta di essere in un ascensore magico che ci poteva portare ovunque volessimo. La nonna poi mi raccontava tantissime storie che mi facevano piangere, ridere, provare molte emozioni diverse. E fu lei a regalarmi il mio primo pianoforte». Giochi e musica. E la direttrice d’orchestra messicana, che giovedì 30settembre inaugura la nuova stagione di concerti dell’Orchestra sinfonica di Milano Giuseppe Verdi, evoca il verbo inglese to play «che significa, appunto, giocare, ma anche suonare. Perché «suonare è innanzitutto un gioco. Certo, occorrono preparazione, contenuti, competenza e duro lavoro, ma tutto va fatto in una prospettiva di gioco». Alondra de la Parra, classe 1980, nata a New York e cresciuta in Messico, con laVerdi (repliche venerdì 1 e domenica 3 ottobre all’Auditorium di largo Mahler che riapre dopo lavori di ammodernamento per rendere la sala ancora più sicura anche dal punto di vista igienico-sanitario ) ha sul leggio Copland e Mahler, Ravel e Milhaud, accompagnata dal tenore Julian Prégardien. «Quando scelgo i programmi mi piace raccontare contrasti di tempi, di nazionalità, di epoche, di stili. Per Milano ho pensato a un programma dove si raccontano storie d’amore da prospettive differenti, con una contaminazione culturale che rende tutto più magico».
Come è nata, Alondra de la Parra, la sua passione per la musica?
«Sono sempre stata circondata dalla musica, i miei genitori mi hanno sempre portato ai concerti. E fin da piccola ho fatto musica: a 7 anni suonavo il pianoforte, a 13 il violoncello. È stato un innamoramento naturale e la musica è gradualmente diventata la parte più importante della mia vita».
I primi anni a New York e poi il trasferimento in Messico. Quale è per lei la sua patria, la sua casa?
«Mi sento più messicana che americana, perché i miei genitori sono messicani, e perché sono cresciuta lì. Anche se sono nata a New York perché mamma e papà studiavano e lavoravano negli Stati Uniti. Quando siamo tornati in Messico fu duro, perché in quella fase volevo stare a New York, città che rappresentava un mondo dove c’erano così tante belle storie e dove erano ambientati tanti film. Quando mi sono spostata sono tornata lì dove ho imparato il mestiere, dove ho incontrato i miei più importanti sostenitori e dove ho avuto le esperienze chiave per la mia carriera. E proprio New York ho fondato la mia orchestra la Philharmonic orchestra of the Americas».
Quando ha deciso di impugnare la bacchetta e salire sul podio?
«Molto presto. A 13 anni ero “ossessionata” dalle partiture di Sostakovic, Stravinsky, Bartok, e sognavo di poterle dirigere. L’orchestra mi meraviglia ancora oggi, ogni volta che salgo sul podio: resto sempre stupita di fronte a così tante persone, con differenti esperienze di vita e con tante emozioni diverse che suonando strumenti diversi, diventando una sola voce. Far andare tutto questo insieme è miracoloso. Ho scoperto questa energia molto presto, e l’ho subito riconosciuta come qualcosa di speciale. Ho voluto renderla la mia vita, correndo anche un rischio perché incontravo una certa diffidenza, essendo una ragazza. Qualcuno provava a scoraggiarmi, ma ho preferito provare ed eventualmente sbagliare, rispetto a non provarci proprio. E sono contenta di averlo fatto».
Dunque è ancora difficile per una donna svolgere una professione che in molti associano subito agli uomini? Ha subito discriminazione?
«Non mi sono mai sentita fuori posto sul podio. La storia della musica è piena di storie e personaggi illustri che attestano che maschile e femminile debbano stare insieme, essere presenti in egual modo. Si ha bisogno di entrambi. Nella musica sono sempre di più le donne che salgono sul podio, stiamo vivendo un bel cambiamento culturale e sono felice di far parte di questo cambiamento».
Direttrice, moglie e madre. Cosa significa per un artista essere sempre in viaggio?
«Mentirei se dicessi che mi piace la parte nomade del mio lavoro, perché mi piace tanto stare a casa e avere una routine. Certo, amo le diverse culture che incontro e mi piace avere una prospettiva più ampia possibile nel vedere il mondo. Passo il mio tempo in così tanti paesi e ovunque vado mi piace osservare il comportamento delle persone e notare le differenze che le rendono uniche. Ma devo anche dire che passare il tempo da sola sugli aerei o sui treni è difficile. Nel futuro, credo, dovremo trovare modi per far sì che i direttori non si debbano muovere così tanto, lavorando su progetti più ampi su specifici territori, così da avere anche un occhio all’ambiente, attenti a non inquinare così tanto come facciamo oggi. Forse la pandemia ci sta già in qualche modo costringendo a ripensare questo».
Questa è anche un’occasione di ripartenza proprio dopo la pandemia.
«La paura, le limitazioni, la perdita del lavoro da un giorno all’altro mi hanno destabilizzata, ma poi ho cercato di fare di questo momento un’occasione per riorganizzare i miei pensieri e i miei desideri creativi, focalizzandomi sui progetti che non ero ancora riuscita a mettere in campo, come The silence of sound, un progetto che mette insieme orchestra e clowns sul quale stavo lavorando da sei anni. Non solo, il lockdown è stato un momento durante il quale focalizzarmi maggiormente su temi che mi stanno a cuore, come la violenza che devasta il Messico».
Accanto all’attività di musicista è da sempre impegnata nella difesa dei diritti delle donne proprio nel suo paese. Qual è la situazione?
«È quasi impossibile da comprendere quanto sia orribile la situazione relativa alla violenza contro le donne in Messico. Ho deciso di dare il mio contributo per andare contro questa piaga con la Impossible orchestra: ho chiamato a raccolta tanti bravissimi musicisti provenienti da tutto il mondo per suonare e registrare una musica composta da Arturo Marquez, Danzón n.2, per provare a costruire insieme una maggiore consapevolezza della situazione e sostenere le istituzioni che aiutano le donne e i bambini vittime di violenza nel mio paese. Sono convinta che tutti possiamo fare qualcosa per cambiare e migliorare le cose. Noi lo abbiamo fatto attraverso la musica».
Nella foto @Felix Broede Alondra de la Parra