Un ballo in maschera inaugura il Festival Verdi 2021 Jacopo Spirei porta in scena il progetto dello spettacolo pensato dal regista inglese scomparso a luglio per Covid Dirige Roberto Abbado, cantano Pretti, Pirozzi ed Enkhbat
Un funerale. Al quale siamo invitati a partecipare. Lo dice, prepotente, la potenza delle immagini. Perché entrando in sala – che è quella del Teatro Regio di Parma dove si inaugura il Festival Verdi, edizione 2021 – il sipario è sollevato. E il silenzio, in qualche modo, è di quelli che invitano al raccoglimento, religioso o laico che sia. L’emozione è palpabile, tanto che non ti viene da parlare, ipnotizzato dalla forza della visione (al massimo vuoi catturarla in uno scatto sul telefonino). Un velo nero divide palco e platea. Nero, ma che attraversato da una luce acida, fredda che ti lascia vedere oltre. Trasparente come le velette che un tempo le donne si calavano sul viso (pallido, solcato dalle lacrime) vestendo il lutto. Dietro, figure dai contorni sfumati attendono l’inizio della veglia funebre. C’è chi tiene aperto un ombrello, nero come gli abiti che tutti indossano. Chi è seduto, chi in piedi. Tutti guardano un monumento (di marmo nero, lucido, bellissimo) con un angelo (ha le ali, ma anche il corpo aitante, perfettamente scolpito di un giovane uomo) nell’atto di spiccare il volo: un piede in punta ancora poggiato a terra, l’altro già sollevato, il corpo proteso in avanti, le braccia aperte, le ali spiegate. Disteso a terra un manto regale. Viola. Altro colore del lutto. Soprattutto per chi vive di (e in) teatro.
L’idea, quella di mettere in scena (unico elemento di tutto lo spettacolo) un grande monumento funebre e di aprire Un ballo in maschera (sulle note della breve introduzione orchestrale) con il funerale di re Gustavo III, era di Graham Vick. Era, perché Vick è morto due mesi fa, a luglio, nella sua Inghilterra a causa del Covid. Dunque l’effetto di quell’angelo, di quel monumento funebre, di quel funerale in scena è di quelli da pugno nello stomaco. Profetico. Tragicamente profetico, diresti pensando che Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi è l’ultimo spettacolo del regista. «Uno spettacolo di Vick? No. Uno spettacolo di Spirei? Nemmeno. Questo è un gioco del destino. Uno scherzo e una follia» racconta, citando il libretto del Ballo di Antonio Somma, Jacopo Spirei (a lungo assistente di Vick, oggi regista affermato, di talento, uomo di pensiero che traduce la riflessione in azione) che ha raccolto il testimone e portato a compimento lo spettacolo, realizzando e dando forma a un progetto «che è una conversazione tra Grahm e me» spiega Spirei. Emozionato, commosso. Schivo, quasi defilato (alla prima) in un palco di proscenio a guardare il lavoro suo e del suo maestro. A partecipare, con tutto il pubblico, al funerale di Gustavo III che, inevitabilmente, per chi ama il teatro (e ha amato il regista inglese) diventa il funerale di Vick. E a lui è deidcato il Festival Verdi 2021.
Un regista, un uomo prima di tutto, Vick, capace con i suoi lavori (anche con i meno riusciti) di scardinare certezze e di suscitare riflessioni, spesso scomode. Come in questo Ballo in maschera che inaugura il Festival Verdi. Che, come sempre, propone non solo un’opera, ma un contributo scientifico e musicologico alla conoscenza del catalogo verdiano. Sul leggio di Roberto Abbado (che guida la Filarmonica Arturo Toscanini e l’ottimo Coro del Regio preparato da Martino Faggiani) c’è l’edizione critica della partitura di Ilaria Narici. Il libretto, invece, è quello che Verdi e Somma avevano approntato per il debutto a Roma del Ballo, quando – era il 1859 – l’opera si intitolava ancora Gustavo III, era ambientata a Stoccolma e metteva in scena un regicidio, avvenuto realmente in Svezia nel 1792: vittima il re Gustavo III assassinato in una congiura ordita da Jacob Ankarstrom. Tutti nomi che compaiono nel libretto. Intervenne poi la censura che impose di cambiare il titolo (si prese il sottotitolo del dramma di Eugene Scribe a cui Verdi e Somma si erano ispirati, Gustave III ou Le bal masqé), di trasportare l’azione a Boston, di trasformare il re nel governatore della città americana, il conte Riccardo, e Ankarstrom nell’amico Renato.Libretto a tratti più duro, a volte più ingenuo e altre meno incisivo di quello che oggi si ascolta abitualmente. Verdi, dopo essersi rifiutato di modificare il libretto l’anno prima a Napoli dove Ballo (o meglio Gustavo III) avrebbe dovuto andare in scena al San Carlo, accettò le modifiche della censura pontificia perché meno invasive e stravolgenti di quelle della scure napoletana. Il senso profondo dell’opera era salvo.
Opera che «parla di limiti, di varcare i confini per spingersi oltre» come spiega ancora Spirei raccontando il suo (e di Vick) spettacolo. Il limite dell’umano. I confini della vita e della morte. Gustavo III (la storia, che non nasconde la sua presunta omosessualità, lo racconta come monarca assoluto che abolì la tortura, mise in atto riforme sociali, diede impulso al liberalismo economico, diede cittadinanza a ebraismo e cattolicesimo, sostenne la cultura) li varca. Sicuramente nell’opera di Verdi. Dove rompe le regole amando (ricambiato) la moglie del suo migliore amico. Dove sfida la profezia di Ulrica che gli predice la morte violenta. Dove, cosa ancora più scandalosa, offre il perdono a chi lo uccide. Uno stile di vita revisionista che gli procurò amici, ma anche molti nemici. E per questo Vick lo vedeva (lo vede) come un uomo che «corteggiava il pericolo con tutto l’autodistruttivo fulgore di un artista la cui più grande creazione sarà la sua stessa morte». Spirei lo mette in scena così. Libero. In uno spettacolo dove «si parla di mascheramenti, di travestimenti, di come niente sia come appare» – aspetto che ha dato lo spunto al Festival Verdi per un’anteprima in stile queer dedicata ai giovani (invitati a partecipare travestiti) che ha centrato l’effetto di una pubblicità a costo zero scatenata da interrogazioni parlamentari leghiste e dalle solite esternazioni di Vittorio Sgarbi.
Mascheramenti, travestimenti che ci sono in scena. Dove la corte di Gustavo III è fatta di benpensanti in frac dalla foggia ottocentesca (come di un tardo ottocento sono gli abiti dei protagonisti), ingabbiati (letteralmente, perché ogni corista è in una sua cella) in alto, in una balconata che sovrasta la scena (bellissima nella sua semplicità) di Richard Hudson. Un grande spazio semicircolare, ideale prolungamento stilizzato della sala (siamo tuti dentro il funerale… sembra dirci), colorato di un verde acido (le luci sono di Giuseppe Di Iorio), abitato dal grande monumento funebre che cambia continuamente posizione (collocato su un girevole) e popolato da un’umanità (a volte, purtroppo, ancora) ai margini, che sembra uscita da una sfilata del Pride (i costumi, accuratissimi, sono sempre di Hudson, affiancato nel suo lavoro da Justin Arienti) o da un locale a tema gay – il ballo in maschera del finale evoca una discoteca anni Settanta con tanto di palla a specchi e trapezista che fa le sue evoluzioni, bravissimo Ivan Morales Ruiz. Un magma di corpi, di carni, di desideri (e dunque poco importa se l’antro di Ulrica assomiglia all’orrido campo o alla festa finale perché il dolore e la miseria sono gli stessi) che sembra dare forma all’inconscio di Gustavo III (la sua presunta omosessualità?). Affidata ad attori che contrappuntano l’azione con una continua danza astratta e sghemba (i movimenti coreografici sono di Virginia Spallarossa) dove amore e violenza si fondono per raccontare la quotidianità della vita. Immagini potenti per una drammaturgia che procede per suggestioni, per visioni. Alcune bellissime, da togliere il fiato, come certi controluce dove la classicità del monumento che si unisce alla modernità del linguaggio dei corpi richiama le installazioni di Bill Viola.
Un’estetica perfetta e compiuta quella ricreata in scena da Spirei, capace di mettere in campo, insieme allo stridore di una quotidianità che interroga, anche momenti di poesia. Come quando, mentre Ankarstrom canta a denti stretti il suo Eri tu (che qui, nel libretto pre-censura diventa un E sei tu che macchiavi quell’anima), sullo sfondo Amelia gioca con il figlio, controscena in perfetta sintonia con il libretto dato che poco prima il marito le ha concesso di rivedere il bambino – una delle tante risposte già scritte nella regia di Spirei alle contestazioni di chi, tra il primo e il secondo quadro del primo atto ha lanciato nel buio un «Verdi si rivolta nella tomba per queste schifezze», subito zittito, anzi zittita, da un non proprio educato, ma efficace, «Taci gallina!». Un bimbo che gioca a travestirsi da re – altro colpo al cuore dato che Amelia ama Gustavo – che lotta con la mamma, che suona un tamburello che diventerà l’urna per l’estrazione del nome di chi tra i congiurati avrà il compito di uccidere Gustavo.
Poesia e ruvidezza che ci sono anche nella lettura precisa e puntuale che dal podio offre Roberto Abbado, in perfetto equilibrio tra classicità e modernità. Nel Ballo in maschera del direttore musicale del Festival Verdi ci sono colori continuamente cangianti, tempi meditativi e ritmi più indiavolati, squarci di modernità che si allungano sulla tradizione (con Ballo il percorso di Verdi imbocca definitivamente una strada nuova) e un ritmo teatrale sempre attento al racconto musicale e scenico. Lo stesso che si sente (e si vede) sul palco, dove Piero Pretti con la sua voce (bellissima, musicalissima, morbida, a suo agio in ogni passaggio) disegna un Gustavo III misuratissimo (mai una nota, un accento fuori posto per il tenore), disincantato di fronte agli eventi che lo portano verso la tomba. Combattiva, non rassegnata l’Amelia di Anna Pirozzi, protagonista di un’altra prova di notevole maturità interpretativa, capace di piegare la sua voce (un fiume in piena) ad un canto sfumato (i pianissimi, gli acuti che sono cristallo e lacrime) e dolente. Non batte ciglio l’Anckastrom di Amartuvshin Enkhbat: il baritono mongolo, con la sua voce (che ha la pasta dei cantanti di una volta, diresti) tornita e avvolgente, illuminata di bellezza, disegna un uomo tutto d’un pezzo, coerente sino alla fine, persino nel distacco con il quale partecipa ai funerali dell’amico re. Giuliana Gianfaldoni con voce limpida, acuti brillanti e svettanti (ma a volte, specie nei concertati, il rischio è di perderla un po’) disegna un Oscar di carattere, che arriva vestito da odalisca nell’antro di Ulrica. Personaggio sul quale Anna Maria Chiuri, con la sua voce tagliente e penetrante, stende un’ombra ancora più sinistra e inquietante. I roboanti congiurati Ribbing e Dehorn sono Fabrizio Beggi e Carlo Cigni, con loro Fabio Previati (Cristiano), Cristiano Olivieri (il ministro di giustizia) e Federico Veltri (un servo del conte).
Tutti presenti al funerale di Gustavo. Che apre e chiude, in un cerchio perfetto, lo spettacolo, che diventa così un lungo flash back. Un corsa verso la morte. Che, comunque, non è l’ultima parola. Perché c’è la visione potente di quell’angelo, un piede in punta ancora poggiato a terra, l’altro già sollevato, il corpo proteso in avanti, le braccia aperte, le ali spiegate. Pronto – come Grahm Vick, forse, dopo aver vegliato su questo “suo” ultimo spettacolo – pronto a spiccare il volo.
Nelle foto @Roberto Ricci Un ballo in maschera al Teatro Regio di Parma