Quello che MiTo ha scelto per l’edizione 2021, non è solo un titolo. Per quanto suggestivo, evocativo, capace di contenere tutto quello che questa parola può far venire in mente parlando di musica e di quanto i compositori siano stati spesso precursori e profeti. Futuri, al plurale, è una dichiarazione di intenti. È la volontà che il festival, che anche quest’anno per una ventina di giorni ha unito Milano e Torino in una staffetta musicale, mette in campo. Lo dice, chiaro, il doppio concerto ospitato prima al Teatro Dal Verme di Milano e poi al Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino. Sul palco un’orchestra che non è un’orchestra. Perché non è istituzionalizzata, non ha una frequentazione tra prove e concerti. Ma è nata per l’occasione, mettendo seduti allo stesso leggio gli allievi dei Conservatori – curioso, entrambi intitolati a Giuseppe Verdi – di Milano e Torino. Alcuni giorni di prove per conoscersi, per stringere amicizie, per trovare quella complicità necessaria per fare musica insieme. Prove generali di un futuro, per loro che sono il futuro della musica in Italia. Che domani suoneranno nella stessa orchestra, nello stesso gruppo. O saranno nelle aule di scuola a formare altri ragazzi (altri futuri) per farli appassionare a Beethoven e Mozart. Futuri, dunque. Musicisti guidati da un direttore il cui futuro è già un presente di promesse mantenute, un oggi di basi gettate per costruire il domani (un futuro), Nicolò Jacopo Suppa. Una famiglia di musicisti, la formazione in Conservatorio a Milano e la militanza nelle Voci bianche del Teatro alla Scala, le masterclass con Gianandrea Noseda e Daniele Gatti (e il suo concerto milanese per MiTo ha preceduto di poche ore quello di Gatti alla Scala con Santa Cecilia). Opere e concerti in agenda.
Suppa in pochi giorni ha plasmato i ragazzi dei Conservatori di Milano e Torino facendoli respirare insieme e cercando (e trovando) un suono morbido e compatto – Cantabile il titolo scelto per il concerto. Sul leggio l’Ouverture in do maggiore di Franz Schubert, la seconda delle due “in stile italiano” che il compositore viennese scrisse dopo aver ascoltato le opere di Gioachino Rossini. Schubert non cita mai esplicitamente il compositore di Pesaro, ma i meccanismi musicali (tra sorriso e malinconia) sono quelli tipici dell’autore de Il barbiere di Siviglia. Suppa (quest’anno alla Chigiana ha diretto proprio L’occasione fa i ladro) non li nasconde, anzi li esalta in un continuo dentro e fuori tra lo stile viennese e quello “pesarese”. I Due acquerelli per orchestra d’archi di Frederick Delius– Lento, ma non troppo e Gaily, but not quick che Eric Fenby realizza trascrivendo per orchestra d’archi due liriche senza parole per coro a cappella scritte da Delius – sono una meditazione che prepara l’approdo a Beethoven. Sul leggio la Sinfonia n.4 in si bemolle maggiore che Suppa (pur tenendo presente come alcuni accorgimenti rimandino alla Prima e soprattutto alla Seconda) non legge come uno sguardo all’indietro – quasi che Beethoven dopo le sperimentazioni della Terza, l’Eroica, volesse tornare al passato prima di assestare un altro colpo con la Quinta – ma come una partitura dove la lezione dell’Eroica si fonde con quello che verrà (ecco ancora il futuro e i futuri) con la Quinta (e non solo). Frasi chiare, intellegibili. Suono pieno, corposo. Carattere netto. Che i ragazzi dell’orchestra degli allievi dei Conservatori di Milano e di Torino restituiscono con l’entusiasmo e la passione (e anche con quelle imprecisioni e sporcature che raccontano l’emozione del momento) di chi si affaccia al (proprio) futuro.