Lo spettacolo storico di Ponnelle diretto da Dantone inaugura un ciclo di tre opere del musicista di Pesaro
D’accordo. I titoli scelti sono di quelli che si adattano perfettamente alle regole Covid: orchestra non enorme che può stare (distanziata) in buca, coro ridotto al minimo – non si arriva a venti –, un cast con sei/sette artisti. E dunque titoli e organici perfetti per questi tempi di pandemia dove il teatro e l’arte sono (giustamente, intendiamoci) sottoposti a regole ferree che, però, da altre parti (i treni pieni all’80%, ad esempio) iniziano (giustamente, diciamolo) ad allentarsi. Ma quello che va in scena al Teatro alla Scala in questa vigilia d’autunno (che sa ancora di estate) è una sorta di Rossini opera festival a Milano. Perché nel giro di un mese sul palco del Piermarini, dove si rialza il sipario dopo la pausa di agosto, arrivano tre opere (tre titoli, proprio come succede in ogni edizione del Rof) del compositore pesarese.
Si parte con la ripresa della storica Italiana in Algeri di Jean-Pierre Ponnelle – poi arriveranno Barbiere di Siviglia in un nuovo allestimento di Leo Muscato con Riccardo Chailly sul podio e il Turco in Italia che si era visto una sola sera, il 22 febbraio 2020, prima che la pandemia travolgesse tutto e tutti. Italiana già pronta in primavera per andare in streaming, ma bloccata, alla prima, per un caso di Covid nel cast – per fortuna alla generale le telecamere erano accese e lo spettacolo andò comunque in rete. Ora ecco che arriva in scena.
Spettacolo storico, si diceva. Bello nella poesia delle scene (che, come i costumi, sono dello stesso Ponnelle) che ambientano tutta la vicenda nell’harem di Mustafà sul quale si aprono via via vedute paesaggistiche dichiaratamente finte e teatrali, ma sempre dal fascino immutato. Ma a distanza da quasi cinquant’anni dal debutto la domanda è se lo spettacolo (e il modo di fare il rossini buffo che andava negli anni Settanta) non sia superato. Sì, diresti di fronte al faticoso srotolarsi della vicenda, immaginata da Ponnelle quasi come una serata di avanspettacolo, ma ora, dopo quasi cinquant’anni appunto, senza più brio e ironia. Colpa del tempo? Colpa degli interpreti, alcuni interpreti, che non hanno (innegabilmente, anche se il rischio è quello di una nostalgia che non porta da nessuna parte) il carisma di chi in passato ha vestito i panni di Isabella e Lindoro? Colpa della ripresa (troppo sommaria e che infarcisce di mossettine e ammiccamenti inutili la scrittura originaria del regista) di Grische Asagaroff? L’ultima, verrebbe da dire.
Il risultato è, certo, quello di una serata riuscita a metà – anche se di questi tempi, averne di serate così. Con la bacchetta più meditativa (e troppo seriosa) che ironica di Ottavio Dantone: non c’è la follia, il precipitare musicale rossiniano, il vortice di suoni che ti va alla testa nella lettura del direttore che sembra non essere così a suo agio con Rossini così come lo è con Monteverdi e il Barocco. Il rischio di questo approccio (filologicamente informato?) è quello di una monotonia di sottofondo e di una pesantezza orchestrale (tanto più che non tutti gli assoli dei musicisti scaligeri sono impeccabili) che si traduce in un volume uniforme e livellato verso l’alto che mette tra buca e palco un muro di suono spesso difficile da superare per gli interpreti.
Chi ha voce e volume passa. Così Carlo Lepore (arrivato all’ultimo a sostituire l’indisposto Mirco Palazzi) giganteggia (esperienza, gusto, intelligenza scenica… c’è tutto nella sua interpretazione) nei panni di Mustafà. Mai caricaturale. Così come il Taddeo (il tormento e la goffaggine che solitamente fanno scaturire la risata qui sono trasfigurati in un ritratto umano inedito) di Roberto De Candia. Maxim Mironov disegna un Lindoro elegante e nobile con la sua voce di cristallo, penalizzata (coperta) a volte dai volumi dell’orchestra. Come capita a Gaëlle Arquez, Isabella scenicamente affascinante, ma vocalmente fragile. Giulio Mastrototaro (che canta benissimo le Femmine d’Italia) è Haly, Enkeleda Kamani e Svetlina Stoyanova sono Elvira e Zulma.
Con Rossini, per fortuna, non ci si annoia mai. E, a pensarci bene, si ride (e di gusto) di noi
Nella foto Brescia/Amisano Teatro alla Scala L’italiana in Algeri