Al Rof di Pesaro regia pop e piena di azione di Livermore che si ispira a The Crown e all’attuale sovrana inglese Karine Deshayes credibile protagonista, dirige Pidò
Elisabetta ti guarda dalla copertina del programma di sala, ritratta con la sua fronte alta, le perle incastonate nella capigliatura rossa e riccia, la gorgiera bianca e oro a incorniciarle il viso affilato. Dal palco, invece, immagine spiazzante per l’impressionante somiglianza con un’altra Elisabetta (ma anche con Olivia Colman, l’attrice britannica, che presta il suo volto a Lilibet in The Crown e con la Helen Mirren da Oscar di The Queen), ecco lo sguardo di Karine Deshayes, vestita di bianco, la fascia blu con le onorificenze appuntata alla spalla, la corona che brilla in testa. Infila gli occhiali e parla alla radio, legge un messaggio ai sudditi. «Quanto è grato all’alma mia, il comun, dolce contento».
Elisabetta regina d’Inghilterra. Sì, ma quale Elisabetta? La scelta, in realtà, guardando alla storia inglese, non è vastissima, è tra due regine perché tante (o meglio, poche) sono quelle che, con questo nome, hanno portato il peso della corona britannica. Una, poi, classe 1926, l’indossa ancora, quando non sfoggia i suoi cappellini di tendenza. È sul trono britannico dal 2 giugno 1953, inossidabile, sopravvive a premier e capi di stato, resiste agli scandali, agli intrighi, alla vedovanza… resiste persino alle sconfitte sportive della sua Inghilterra, relegata inesorabilmente al secondo posto in questa estate di Europei e Olimpiadi. È una Windsor, Elisabetta II, figlia di re Giorgio VI.
L’altra, quella del ritratto, è Elisabetta I, nata nel 1533 da Enrico VIII e Anna Bolena, rimasta sul trono inglese dal 1558 sino alla sua morte, nel 1603. E la regina vergine, ultima dei Tudor, è quella che Gioachino Rossini sceglie nel 1815 per conquistare Napoli (dopo aver già conquistato Venezia e Milano), scrivendo per il Teatro San Carlo un’opera ispirata alla sovrana che ha dato il nome ad un’epoca, quella elisabettiana di William Shakespeare, Christopher Marlowe e Francis Bacon. Un’opera che lo imponesse come compositore di riferimento, sperava Rossini che a Napoli conosce la sua futura moglie, Isabella Colbran, scritturata per il ruolo della regina. Un’opera, Elisabetta regina di Inghilterra, che al contrario di quello che il titolo lascia intendere non ha nulla di storico. Anzi. Si ispira ad un dramma teatrale, Il paggio di Leicester del 1813 di Carlo Federici che a sua volta trae spunto da un romanzo gotico, The recess scritto nel 1785 da Sophia Lee. Racconta di un presunto innamoramento di Elisabetta per Leicester, eroe nazionale che difende la corona, sposato in segreto con Matilde, naturalmente figlia dell’acerrima nemica di Elisabetta, Maria Stuarda. Amore che si intreccia con il complotto politico di Norfolc che, capisci subito appena apre bocca, farà una brutta fine. Una trama di quelle che ti catturano dall’inizio alla fine. E pazienza per la verità storica su Elisabetta I.
Che, però, non è sul palco della Vitrifrigo Arena di Pesaro. Dove c’è, invece, Elisabetta II. Quella di The Queen, la pellicola di Stephen Frears. E soprattutto quella di The Crown, la serie tv che ha appassionato milioni di persone. Una sorta di variante (si potrebbe dire inglese, in questo caso) aggiornata al ventunesimo secolo dell’opera lirica ottocentesca: racconto pop, romanzato, capace di catturare (come i fotoromanzi, come le telenovela) e di tenerti incollato allo schermo per vedere come va a finire. Ieri Elisabetta I, personaggio popolarissimo tanto che non solo Rossini, ma anche Donizetti l’ha raccontata in musica. Oggi Elisabetta II. Altrettanto popolare. Che irrompe anche nella lirica di oggi. A Pesaro, appunto. Dove capita che Rossini assomigli tanto ad una serie tv. Perché il regista Davide Livermore rilegge Elisabetta regina d’Inghilterra, terzo titolo dell’edizione 2021 del Rossini opera festival (coprodotto con il Teatro Massimo di Palermo), come se fosse una puntata di The Crown. E fa diventare la sovrana figlia di Enrico VIII del libretto rossiniano l’attuale monarca britannica. Non solo. Norfolc, il cattivo, assomiglia tanto a Winston Churchill. Leicester rientra a Londra dalla vittoria sulla Scozia a bordo di un aereo della Raf. Interni ed esterni, molto stilizzati nelle scene che Giò Forma fa dialogare con i video dei D-Wok (e non mancano i tic e i feticci che hanno caratterizzato tanti loro lavori… i neon, le statue di animali, i video con le proiezioni che si compongono e si sgretolano…) richiamano un immaginario Buckingham Palace, con tanto di prato all’inglese fiorito dove si prende il tè. I costumi (elegantissimi e in perfetto stile british) di Gianluca Falaschi sembrano usciti da un documentario della Bbc.
E il gioco funziona. Anche perché nella partitura non c’è nulla di storico. Nulla che sia realmente accaduto. C’è la fantasia. La stessa che Livermore mette abbondantemente nel suo spettacolo. Ipercinetico, con movimenti che contrappuntano ogni nota – i camerieri/servi di scena che ogni volta che entrano ed escono portando sedie e tavoli come trasportati dal vento sembrano usciti da un quadro di Jack Vetteriano e ti fanno girare la testa. Con immagini che si susseguono senza tregua (nel finale primo quando Elisabetta è furente per il tradimento c’è anche un cervo che, per i più nerd, richiama il Patronus di Harry Potter), marcate (di colori e luci, firmate da Nicolas Bovey) che ti stordiscono con la loro carica da fumettone pop. Ironicamente insinuante anche nella tragedia che si veste di thriller. Ridondante nel moltiplicarsi di controscene che si affiancano all’azione principale. Pieno di autocitazioni di precedenti allestimenti (e qualcuno alla prima, agli applausi finali, lo ha fatto notare non con molto garbo), dai fermo immagine ai rallenty alle “inquadrature” realizzate con “movimenti di macchina” che ti portano dentro i luoghi dell’azione. Perché Livermore racconta sempre attraverso un linguaggio che è molto cinematografico – da rivedere lo spettacolo quando, il 30 settembre, sarà trasmesso da Ria5.
Dunque tanto (forse troppo) in questa Elisabetta piena di effetti speciali tra i quali si muovono con grande disinvoltura e credibilità (come davanti a una macchina da presa) gli interpreti. Rossiniani doc. Da ascoltare senza pre-giudizi, anche se le loro vocalità apparentemente sembrano lontane da quello che siamo abituati a sentire (o a pensare, dato che poi Elisabetta non si ascolta così spesso in teatro). Un festival, come il Rof è, serve anche a sperimentare nuove strade. E qui un mezzosoprano acuto come Karine Deshayes (interprete raffinata e misuratissima) offre ad Elisabetta un aplomb (british), un solenne distacco attraverso un canto affilato, spigoloso, capace di dare corpo ai tormenti interiori di chi ama, ma deve prima di tutto rendere conto alla ragion di stato. La Deshayes (presenza scenica adeguatissima e calamitante) affronta la parte con grinta. La stessa che Salome Jicia (soprano che ha cantato ruoli Colbran come Semiaride) mette nel disegnare Matilde, personaggio che, però, non sempre arriva in tutta la sua forza. Sergey Romanovsk va cauto nel misurarsi con l’impervia parte da baritenore di Leicester, la avvicina pian piano e la fa propria nella grande scena del carcere. Anche la scrittura che Rossini ha pensato per il cattivo Norfolc (spesso i suoi cattivi sono tenori, non voci scure) è di quelle da far tremare i polsi: Barry Banks, classe 1960, prima volta al Rof, la affronta con una tecnica che gli consente di non uscirne a pezzi. Un’opera, Elisabetta, dove Rossini abbandona i recitativi secchi per quelli accompagnati. Molti di questi sono affidati a Enrico (mezzosoprano che canta un ruolo en travesti) e Guglielmo (il terzo tenore, cosa che indica la tinta, il colore della partitura, più brillante che cupa): li restituiscono con puntualità e bella immedesimazione Marta Pluda e Valentino Buzza, interpreti da ri-ascoltare sicuramente in ruoli più complessi.
Li guida un efficace Evelino Pidó sul podio dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai. Il direttore già dalla sinfonia – che è poi la stessa, identica de Il barbiere di Siviglia e basta poco per farla suonare più drammatica… Rossini è così, stessi meccanismi per il comico e per il tragico – domina la partitura con piglio e gusto, la dispiega nella sua sperimentale arditezza, la asseconda lasciandola respirare, raccontandola in tutte le sue sfumature – la commedia, la tragedia, il thriller – sino al lieto fine dove Elisabetta torna ad essere solo regina, mettendo da parte l’amore, mantello rosso sulle spalle, scettro in mano, gli stessi dell’incoronazione di Elisabetta II.
Momento da immortalare (anche questo una delle tante trovate di Livermore, un suo marchio di fabbrica inconfondibile) con un selfie mentre partono gli applausi finali. Da postare sui social.
Nelle foto @Studio Amati/Bacciardi Elisabetta regina d’Inghilterra al Rossini opera festival