Al Rof di Pesaro Michele Spotti dirige la farsa del 1813 ambientata da Barbe & Doucet su una barca
Si apre il sipario. Ops. Forse qualcosa non torna. Non sarà che hanno sbagliato a montare la scenografia e vediamo Il tabarro di Giacomo Puccini? ti chiedi di fronte alla (bellissima) scenografia di Barbe & Doucet: una banchina fluviale, una barca ancorata, una scialuppa di salvataggio. Luci cariche di giallo e arancione perché, dirà poi il signor Bruschino, quello della farsa rossiniana, «che caldo!». Ma dicevamo, Tabarro? Non può essere perché, appena prima che si apra il sipario, Michele Spotti ha diretto con gusto, brio ed eleganza la sinfonia de Il signor Bruschino – quella celeberrima perché Rossini, in partitura, chiede ai secondi violini di battere l’archetto sulle lampade (qui sul leggio) per un effetto tra il curioso e lo straniante. Infatti, spenti gli applausi alla Filarmonica Gioachino Rossini e a Spotti, parte regolarmente il «Dhe tu m’assisti amore», incipit tutto tenorile che apre l’ultima delle cinque farse scritte da Rossini per il Teatro San Moisé di Venezia. Anno 1813, il compositore ventunenne. Fu un fiasco enorme, opera ritirata dopo la prima.
Oggi è un successo. Un successo pieno, meritato, al Rossini opera festival di Pesaro. In locandina al Teatro Rossini (perché qui tutto è intitolato al cittadino pesarese più illustra) c’è Il signor Bruschino, secondo titolo dell’edizione 2021 del Rof. Un meccanismo comico perfetto – e chissà perché alla prima è stato un fiasco, forse (quasi certamente) un tonfo pilotato e scatenato da gelosie e rivalità. Un racconto dove si sorride di noi e dei nostri tic piccolo borghesi. Tanto più nello spettacolo misuratissimo, mai sopra le righe, godibilissimo di Barbe & Doucet che trasportano il libretto di Giuseppe Maria Foppa da un Settecento di nobili decaduti a un Novecento (in Italia? in Francia?) popolato da vitelloni che, inevitabilmente, nel lieto fine saranno scornati (ma contenti) e dovranno arrendersi al trionfo dell’amore. Trama semplice fatta dei tipici elementi della farsa come il travestimento, lo scambio di persona che genera l’equivoco: un vecchio tutore (Gaudenzio) che vuole dare in sposa la sua pupilla (Sofia) al figlio (Bruschino figlio) di un ricco possidente (Bruschino padre), senza calcolare che la ragazza è innamorata di un altro (Florville) che è il figlio del suo più acerrimo nemico e che mette in atto una macchinazione (travestimento e scambio di persona) per riuscire a sposare la ragazza. Riuscendoci.
Caratteri da commedia dell’arte che Barbe & Doucet (lo spettacolo è coprodoto con il Comunale di Bologna e con la Royal opera house di Muscat) fanno diventare personaggi di una commedia all’italiana (curatissimi i costumi che da soli evocano un mondo a suo modo carico di nostalgia) sulle note (bellissime, a volte arditamente sperimentali) di Rossini. Lo spettacolo è un ingranaggio perfetto, scorre fluido. E la scenografia su tre livelli (la banchina, la barca, la scialuppa) si rivela ideale e funzionale alla fruizione del pubblico. Perché gli spettatori sono nei palchetti, distanziati mentre l’orchestra è in platea – perché la buca del Teatro Rossini è piccolissima e non garantisce il distanziamento. Così Michele Spotti è sul podio, quasi al centro della sala. Lo vedi bene dappertutto. Il sorriso sempre sul volto. Gesto preciso, elegante, proteso in avanti a chiamare gli orchestrali, ad accompagnare con puntualità i cantanti, facendo scorrere con gran naturalezza il discorso musicale. Spotti, ventotto anni e con il record personale di cinque anni consecutivi in locandina al Rof, offre una lettura accurata e appassionata della partitura, dove senti la grandezza del Rossini che verrà, anche del Rossini drammatico – l’aria di Sofia ha il respiro delle gradi arie delle eroine rossiniane.
La canta, senza sbagliare una nota (così come fa, d’altra parte, per tutta la serata), Marina Monzò, uscita dall’Accademia rossiniana e oggi raffinata belcantista. Voce bella, gusto nel canto, presenza scenica eccellente. Come Pietro Spagnoli, spassoso signor Bruschino, sempre in perfetto equilibrio tra canto e declamato, tra comico e tragico. Giorgio Caorduro, Gaudenzio in doppiopetto e cappello da marinaio, disegna con brio vocale e scenico non il vecchio tutore, ma il vitellone che vorrebbe godersi la vita, ma invece resta scornato. Jack Swanson ha bella voce che non sempre fa centro con la scrittura rossiniana, ma il suo Floreville conquista comunque perché, si sa, si simpatizza sempre con gli amanti infelici. Rossiniani doc, usciti dall’Accademia, sono anche Chiara Tirotta (puntuale Marianna), Manuel Amati (scanzonato Bruschino figlio) ed Enrico Iviglia (Commissario), con loro Gianluca Margheri (Filiberto).
Cantano si divertono e ci divertono con garbo e misura. Facendoci sorridere, con la grandezza della musica di Rossini, di noi.
Nelle foto @Studio Amati/Bacciardi Il signor Bruschino al Rossini opera festival