Con Strehler la Scala va ancora a Nozze

Mozart diretto da Harding riporta il pubblico in platea L’allestimento celebra i cento anni dalla nascita del regista

Chissà perché, ma da Le nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart esci sempre con una strana sensazione addosso – il perché, in realtà, lo sappiamo bene, benissimo. Eppure ogni volta ci si ricasca. Una sensazione che non è proprio la leggerezza che ti porti a casa dopo aver assistito ad una commedia, nonostante la definizione, sul frontespizio del libretto di Lorenzo Da Ponte, sia quella di «opera buffa». Sì, certo, ridi. O meglio, sorridi. Ma c’è uno struggimento della memoria, una malinconia del tempo che passa che ti prendono (e non ti mollano più, come nel finale del Rosenkavalier, non per nulla modellato da Strauss sulle Nozze mozartiane) quando il Conte, alla fine, intona il suo «Contessa perdono» – d’accordo, anche prima, con l’aria (le arie) della Contessa, ma quello è un punto di non ritorno. E quando gli altri rispondono «Ah tuti contenti saremo così» su una musica mesta che più mesta non si può. Sarà vero? Potremo essere davvero contenti? sembrano domandarsi dopo tutte le disillusioni che hanno vissuto nel giro di una sola (folle) giornata.

Daniel Harding al Teatro alla Scala quella musica l’ha voluta ancora più struggente del solito. Senza dolore bruciante, però, un malessere strisciante, cosa che, a volte, fa ancora più male. E l’ha dilatata, questa sensazione di malinconia mista a struggimento, su tutta la sua lettura dell’opera mozartiana. La più bella di tutte, pensi ogni volta che l’ascolti. Bella perché capace di metterci di fronte (come deve fare l’arte) ad uno specchio. E farci vedere esattamente per quello che siamo in quel preciso momento in cui le note di Mozart prendono vita. Lo ha fatto con chi le ha ascoltate prima di noi. Capiterà anche in futuro. Lo dice un piccolo segno che Giorgio Strehler ha voluto mettere alla fine della sua regia delle Nozze quando, proprio sull’«Ah tuti contenti saremo così», accende le luci in sala. Allestimento storico con le scene perfette di Ezio Frigerio (le prospettive, i colori, i tagli di luce) e i costumi che stilizzano poeticamente il Settecento di Franca Squarciapino, nato per il teatro di corte di Versailles nel 1972, ripensato nel 1981 per la Scala, giustamente ripreso ora per celebrare i cento anni dalla nascita del regista – in sala Giulia Lazzarini e diversi volti del Piccolo teatro di ieri. Da vedere (e da tenere in repertorio) come un quadro prezioso in un museo, non come reperto sterile del passato, ma come terreno nel quale quello che c’è oggi affonda le radici.

Così Le nozze di Figaro che hanno riportato il pubblico alla Scala per un’opera in forma scenica – tolta la pedana costruita per l’orchestra, in platea sono tornate a riempirsi le poltrone che, insieme ai palchi e alle gallerie possono accogliere circa settecento spettatori – ci raccontano (ancora una volta) chi siamo, precisamente in questo giugno 2021. E guardando alla trama potremmo pensare a operai che manifestano per dire no al blocco dei licenziamenti, a pacifisti che chiedono il disarmo o a chi usa la sua posizione per ottenere certe «mezz’ore» che la legge chiama – Mozart antimilitarista da come racconta Cherubino, in prima linea nel denunciare il femminicidio mettendo le parole di Ariosto in bocca a Marcellina nella sua aria Il capro e la capretta come ricorda la musicologa Lidia Bramani (che firma il saggio sul programma di sala). Ci raccontano in questo momento di ripartenza, di riaperture, di ritrovato entusiasmo – sarà vero? dopo tutte le disillusioni che abbiamo vissuto? ci chiediamo. Momento che, però, ha un sapore malinconico perché qualcosa lo abbiamo perduto, perché qualcosa, lo sappiamo, non tornerà più (come prima).

Lo stesso sapore che hanno le Nozze di Harding intrise della malinconia del tempo che passa. La senti (la vedi) in controluce nella lettura meditata e solenne che il direttore offre dal podio. Tempi lenti sin dalla sinfonia, a volte lentissimi, ma voluti, scelti, cercati in orchestra, provati e inseriti in una visione che Harding porta avanti coerentemente – le Nozze di Salisburgo di Nikolaus Harnoncourt erano estenuanti, ma di una bellezza incantata e a suo modo sinistra, così come perfette erano quelle (agli antipodi) scaligere e viennesi di Riccardo Muti, teatralissime, vorticose, solari, affamate di vita. Harding colora di malinconia questo Mozart socialmente prerivoluzionario e sensualmente erotico (come le altre due opere della trilogia di Da Ponte, Don Giovanni e Così fan tutte). Scelte musicali (le mezzevoci che arrivano quando non bisogna fasi sentire) e tempi che, paradossalmente, nella loro lentezza, sono teatrali quasi nel farci vedere alla moviola, vivisezionandola in ogni fotogramma (in ogni nota perché Harding, giustamente, non fa nessun taglio, nemmeno nelle arie del quarto atto) un’azione che conosciamo a memoria – d’altra parte, mentre andava in scena la prima delle Nozze, l’Italia del calcio soffriva, ma poi batteva l’Austria (di Mozart, coincidenza curiosa) per 2 a 1 qualificandosi ai quarti degli Europei. Ogni particolare della partitura è sbalzato da Harding con gusto antico (le trombe, i timpani, il basso continuo), ogni disegno armonico e contrappuntistico sul pentagramma arriva nitido. In questa moviola dei suoni.

Che è anche una moviola dei sentimenti nello spettacolo perfetto di Strehler. Inconfondibile il marchio di fabbrica del regista triestino (imitato da molti, ma mai eguagliato nella sua compiutezza estetica): i suoi controluce, i suoi tagli di luce, gli intrecci inappuntabili dei movimenti, le armonie disegnate dal modo dei personaggi di abitare lo spazio scenico (l’apertura di sipario del secondo atto con la Contessa di spalle che dal proscenio si incammina sul fondo della scena è un’immagine che emoziona sempre), l’essenzialità poetica di ogni gesto.

Un disegno nel quale si inseriscono perfettamente gli interpreti (tutti applauditissimi) di questa edizione – li guida Marina Bianchi, sempre attenta a riprendere con gusto le regie strehleriane. Rosa Feola, che canta magnificamente, naturalissima, con una facilità che ammalia, disegna una Susanna trasognata, lieve, meno irruente e più disincantata di fronte alla vita. Più concreto, materiale il Figaro di Luca Micheletti, voce avvolgente, piena, sempre timbrata e presente. Simon Keenlyside (classe 1959), grande interprete mozartiano (e non solo) è ancora una volta il Conte, personaggio che risolve con il suo carisma scenico dove la vocalità inizia a mostrare qualche crepa. Raffinata, misuratissima, con la parola sempre modellata sulla musica la Contessa di Julia Kleiter così come il Cherubino di Svetlina Stoyanova (più convincente nel Voi che sapete con belle variazioni nel da capo rispetto al Non so più cosa son cosa faccio d’esordio). Ottima tutta la squadra con Anna Doris Capitelli (Marcellina), Andrea Concetti (Bartolo), Matteo Falcier (Basilio), Caterina Sala (Barbarina), Paolo Nevi (Don Curzio), Carlo Cigni (Antonio).

Esci dalle Nozze mozartiane con addosso una strana sensazione. Che, certo, sai benissimo cos’è. Lo struggimento poetico della memoria, la malinconia del tempo che passa. Raccontato da Mozart. E, con la poesia della semplicità, da Strehler (quarant’anni fa) e da Harding (oggi).

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Le nozze di Figaro