Al Piccolo di Milano Shakespeare in versione integrale nella maratona di oltre sei ore realizzata dal regista Federica Rosellini protagonista nei panni del principe
Vestiti di bianco, giacca e pantaloni di un troppo largo smoking indossato indifferentemente dagli uomini e dalle donne, gli attori entrano in sala quando le luci sono ancora accese – e accese resteranno per gran parte dello spettacolo, per togliere allo spettatore quella dimensione privata, intima, a volte confortevole, del buio in sala e portarlo dentro una rappresentazione che si fa rito. Entrano, un po’ personaggi in cerca d’autore, mentre il pubblico si sta ancora sedendo. Si sistemano di lato, dove resteranno per tutto lo spettacolo, sempre in scena. Anna Coppola, Francesca Cutolo, Flaminia Cuzzoli, Michelangelo Dalisi, Ludovico Fededegni, Francesco Manetti, Fabio Pasquini e Andrea Sorrentino si sistemano su una delle gradinate che abbracciano il palcoscenico del Teatro Studio Melato, quelle imbottite di cuscini color corda, occupate solo nell’ultima fila dagli spettatori mentre gli altri, seduti sugli sgabelli, si affacciano alle ringhiere arancioni dei quattro ballatoi. Perché lo Studio (un po’ Globe nel suo essere moderno scheletro di un teatro all’italiana) ha un palco centrale, avvolto dalle gradinate e dai ballatoi, negli anni fabbrica del meraviglioso con il Faust di Goethe di Giorgio Strehler o Il sogno di Stindberg di Luca Ronconi, oggi laboratorio della parola con Antonio Latella e il suo Hamlet.
Entrano gli attori, si guardano in giro. Ti fissano, indagatori. E lo faranno spesso durante lo spettacolo, perché le parole di William Shakespeare (potenza dirompente e unica del teatro) sembrano dirle solo per te, come se ad ascoltarle per la prima volta in assoluto –sussurrate, ma anche gettate in faccia come uno schiaffo che brucia sulla pelle – ci fossi solo tu. Silenzio. Inizia il rito. Un rito al quale noi in sala siamo chiamati a prendere parte – ce lo chiederanno esplicitamente in vari momenti del viaggio (del rito): «In piedi, entrano il re e la regina di Danimarca». Perché, come capita in tutti i riti, non possiamo essere solo spettatori, non servirebbe a nulla. Non sarebbe, per dirla con un termine alto, catartico. Meglio uscire subito dal teatro, altrimenti, prima che parta la lunga maratona di sei ore e quaranta minuti. Inizia il rito. Abito blu, gilet, camicia bianca, cravatta (un po’ da manager in carriera e un po’ da politico della nuova generazione) Stefano Patti, l’attore che fa Orazio, attraversa la scena e si posiziona ad un leggio. Lineare e nero.
«Atto primo. Scena prima. Entrano Francisco e Bernardo». Con un distacco quasi brechtiano dice le didascalie. E poi inizia a dare voce a tutte le battute, annunciando, ogni volta, il nome dei personaggi che, nel testo, le pronunciano. Lo fa lui, l’attore che fa Orazio (detto così, alla maniera del Testori de I promessi sposi alla prova), perché Amleto morente affida proprio a lui il compito «di raccontare la mia storia». Scelta registica, modellata sul testo di Shakespeare. Necessità di offrire al pubblico un mediatore, un alter ego, un tramite (l’abito contemporaneo, da sartoria) tra chi officia un rito antico come quello del teatro e chi, oggi, vi prende ancora parte. Il suo sguardo diventa il nostro sguardo. «Entra Amleto». E lo vediamo, nel suo troppo largo smoking bianco, avanzare dal fondo della scena, dove era sin dall’inizio. E inginocchiarsi all’inginocchiatoio dove resterà per la prima ora e mezza di spettacolo. Ligneo, l’inginocchiatoio, come le panche da chiesa, unici elementi di scena (li ha disegnati Giuseppe Stellato), ascetici nella loro scarna linearità. In dialogo con l’oratorialità dello spettacolo.
Inizia così, con un effetto straniante, ma potente come pochi nel mettere al centro la parola nella sua disarmante immediatezza, l’Hamlet di Antonio Latella, finalmente in scena, sino al 27 giugno, al Piccolo Teatro di Milano (che lo produce) dopo essere stato bloccato alla vigilia del debutto a marzo 2020 dalla pandemia – in settimana proposto in due parti, sabato e domenica in versione maratona, sei ore e quaranta tutte d’un fiato (più unitarie, che consentono di entrare meglio nello spettacolo) nelle quali buttarsi lasciando fuori dal teatro tutto. Hamlet che è fino all’ultima virgola l’Hamlet di William Shakespeare – nella traduzione di Federico Bellini il titolo resta in inglese, così come il farewell, malinconico e poetico, che torna spesso. Perché Antonio Latella non taglia nulla del testo shakespeariano (lo aveva fatto al cinema anche Kenneth Branagh), lo propone integrale, puntando tutto sulla potenza evocativa della parola. Parola tutta da ascoltare. Tanto che il celebre monologo «Essere o non essere» viene detto fuori scena, nascosta sotto le assi del palco/pavimento del Teatro Studio, da (una bravissima, eroica nella sua resistenza da maratoneta della scena, antiretorica e intensa allo stesso tempo) Federica Rosellini, è lei che fa Amleto in una lettura registica dove, al di là di qualsiasi ambiguità o provocazione, non conta il genere – anche lo Spettro del padre di Amleto è affidato ad un’attrice, Anna Coppola. Altro effetto straniante, ma riuscitissimo.
Latella, al suo terzo incontro sulla scena con il Principe di Danimarca, non propone (programmaticamente) una lettura compiuta, un suo punto di vista preciso sulla tragedia. Ma la offre im-mediata a chi ascolta, perché la parola risuoni in ciascuno in modo diverso. Parola detta, pronunciata. Parola mai retorica, mai enfatica e, per questo, ancora più potente. Parola politica, nel dire qualcosa sul potere. Parola poetica. Parola poco agita, almeno nella lunga prima parte dello spettacolo. Spettacolo che inizia, appunto, con l’attore che fa Orazio che dice il testo. E finisce allo stesso modo, con Orazio che pronuncia le ultime scene mentre Amleto è già disteso nella terra, morto (?) in mezzo ai teschi, al centro del palco. La scena celeberrima del duello tra Amleto e Laerte – le spade avvelenate, la perla che rende letale il vino e la morte di Gertrude e di Claudio – spogliata della sua teatralità non è mai stata così intensa, commovente e vera, da non riuscire a trattenere il pianto. Liberatorio, catartico diresti, che scende mentre Orazio recita l’arrivo di Fortebraccio.
Inizio e fine, estremi di una curva che cresce pian piano, trascolora (quasi in dissolvenza) dal bianco della prima parte al nero della seconda, dove gli attori indossano costumi elisabettiani, tutti di foggia femminile (disegnati da Graziella Pepe). Perché Hamlet non è né bianco né nero, dice il regista, è tutto quello che ci sta in mezzo. Una curva che raggiunge il suo apice e ritorna al grado zero dove «il resto è silenzio». In mezzo tutta la storia di Hamlet, declinata attraverso vari linguaggi e stili teatrali: ci sono il tragico e il comico, il grottesco e il patetico; e ci sono la tragedia e la commedia borghese, l’avanspettacolo e il cabaret – la seconda parte si apre con Federica/Hamlet che canta le Lamette di Donatella Rettore. C’è la ricerca, nella possibilità di guardare ad un testo da più angolature, di farlo suonare diverso dal solito. C’è il laboratorio nella modulazione della voce al microfono, nel continuo gioco di variazioni sul tema (accompagnato dalle immancabili corse in cerchio) che Latella chiede ai suoi attori – bellissimo e ipnotico ascoltare come Francesca Cutolo (misuratissima e al tempo stesso ammaliante) e Francesco Manetti (sinistro e insinuante nella sua imperturbabilità), Gertude e Claudio, declinino musicalmente, in decine di sfumature, parole semplici come «regina» e «re»; o come Andrea Sorrentino (poliedrico, nel suo essere attore eccellente e musicista di talento), che fa Rosencrantz e Guildenstern (e altri ruoli), riesca a dire ogni volta in modo diverso e nuovo i nomi dei personaggi che interpreta, strappando, ogni volta un sorriso.
C’è tutto il percorso artistico di Latella – la sua poetica e la sua estetica – “riassunto” in questo viaggio nel testo di Shakespeare che diventa anche una riflessione sul teatro, sulla sua necessità, resa ancora più urgente dai mesi di chiusura delle sale a causa del Covid (la drammaturgia di Linda Dalisi si concede una breve digressione sui teatri stabili, evocando le difficoltà vissute in questi mesi dagli artisti). Un omaggio al teatro nella lunga sequenza degli attori – irrompono in scena dal sottopalco, comparendo in platea dopo aver sollevato le assi del palco – quando (non senza emozione mista a malinconia) entrano ordinati e appesi su tanti stand i costumi degli spettacoli storici di Strehler e Ronconi, da Arlecchino all’Opera da tre soldi, da La vita è sogno a Lehman Trilogy. Radici dalle quali attingere nutrimento, fondamenta sulle quali costruire il teatro di oggi.
Costumi che si fanno testimoni muti della tragedia di Amleto che, da qui, corre verso il precipizio. Il ritmo dello spettacolo di Latella cresce inesorabile con la morte di Polonio (Michelangelo Dalisi gli offre la sua inquieta presenza scenica, sempre catalizzatrice), la partenza di Amleto per l’Inghilterra, la follia e l’annegamento di Ofelia (la disegna in modo originale Flaminia Cuzzoli) che avviene in scena, in una piscina al centro della scena (che ricorda quella del Faust strehleriano) dentro la quale si getta anche Laerte (un antieroico Ludovico Fededegni) per l’ultimo addio alla sorella, in un abbraccio che resta tra le immagini più potenti e poetiche dello spettacolo. Il ritorno di Amleto, il funerale di Ofelia, la sfida tra Amleto e Laerte. Poi tutto si ferma. Amleto affonda nella terra. (Già) morto. Ritorna la parola. Detta. Orazio riprende a raccontare la storia di Hamlet. Perché, dice Latella con questo spettacolo/capolavoro che è un’esperienza da fare e da vivere abbandonandosi disarmati alla potenza del testo e delle immagini, ognuno «ha bisogno di una storia in cui specchiarsi per guardare, ascoltare, comprendere la propria». E la storia di Hamlet, raccontata così, grazie a Latella, diventa la nostra.
Nelle foto @Masiar Pasquali Hamlet al Piccolo teatro di Milano