Il gruppo teatrale catalano realizza per il Maggio musicale un allestimento sconclusionato della popolare opera Direzione solenne di Mehta che guida un ottimo cast
Il difetto, come si dice con un proverbio, sta nel manico. Sta nel fatto di aver affidato la regia di un’opera come La forza del destino di Giuseppe Verdi alla Fura dels Baus. Perché già sulla carta si capisce che i visionari artisti catalani poco hanno a che fare con il melodramma, con questo melodramma che è un romanzo ottocentesco in musica (in stile Promessi sposi verrebbe quasi da dire), una grande tela, un affresco a sfondo storico dove convivono più scene, dipinte attraverso le note. Insieme di quadri, di momenti corali attraversati dai personaggi del racconto. Le macchine sceniche, lo stile da parata, da teatro di strada tipico della Fura – che bene avevano funzionato nell’Aida del 2013 in Arena a Verona, ma anche nel Ring di Firenze e Valencia con immagini di forte impatto a tradurre le visioni wagneriane – con la Forza sembrano fare un po’ a pugni.
Certo, quella del sovrintendente del Maggio Alexander Pereira poteva essere una scommessa vinta. Poteva essere – e sarebbe stata la lungimiranza dell’uomo di teatro – una sfida dalla quale far scaturire una nuova interpretazione verdiana. Peccato che l’occasione non sia stata colta dalla Fura. Tanto più se, come accade al Teatro del Maggio di Firenze dove i catalani guidati da Carlus Padrissa firmano un nuovo allestimento dell’opera verdiana (in scena sino al 19 giugno) per il Maggio musicale numero 83, l’idea drammaturgica (che poi drammaturgica, a ben vedere, non è) è quella non originalissima di un viaggio nel tempo che parte dal Settecento del libretto di Piave e Ghisalnzoni e approda ad un ipotetico 3333 di neo cavernicoli. Perché, dicono con Albert Einstein quelli della Fura – e lo scrivono su didascalie proiettate sul sipario a ogni cambio di quadro per “spiegare” la loro rilettura della vicenda – «se la terza guerra mondiale non sappiamo con che armi sarà combattuta, sappiamo che la quarta si combatterà con bastoni e pietre». Così, se nel corso dello spettacolo tutti hanno indossato costumi sul modello delle tute spaziali (perché il destino fa viaggiare nel tempo e nello spazio), nel quarto atto, il padre Guardiano e fra Melitone, Leonora che si è rifugiata nel convento della Madonna degli Angeli per sfuggire alla vendetta del fratello, don Alvaro e don Carlo che si sfidano a duello (a colpi di ossa di bisonte), sono dei cavernicoli (e, sena evocare i Flintstones il confine che separa il tragico dal ridicolo è sottile, sottilissimo).
Idea questa applicabilissima a qualsiasi opera in cui si parli di guerra – diciamo Trovatore per restare a Verdi? – e dunque non così originale (e dunque azzeccata) per la Forza. Che i catalani (ri)leggono poi alla luce delle teorie metafisiche di David Lewis sulle leggi di natura, mettendoci dentro stelle e buchi neri. E spiegando il tutto nelle didascalie (scritte con caratteri alla Guerre stellari) che scorrono (disturbando, in verità, l’ascolto) sulle note della celeberrima Sinfonia. Teorie e idee illustrate anche nel programma di sala, altrimenti alla prova del palcoscenico non si capirebbero.
Insomma, tanta confusione – e anche un flash back anni Ottanta con i figuranti e poi il coro che attraversano la platea – in quella che più che una regia (qualche accenno del marchio di fabbrica della Fura c’è negli acrobati che volano imbragati, qualche bella immagine pure, come la chiesa stilizzata e bianca del convento del secondo atto realizzata con una scenografia pressoché unica che si scompone e ricompone ideata da Roland Olbeter) sembra un concerto in costume: certo, per via delle regole anti Covid (che suggeriscono anche il canto con la mascherina) il coro è sempre fermo e distanziato, ma anche i solisti sono lasciati a se stessi e alle vecchie movenze viste e riviste. E non ne hanno colpa. Costretti a indossare costumi, disegnati da Chu Uroz, che non solo non li valorizzano, ma a volte sono penalizzanti per la loro fisicità.
Il sapore, alla fine, è di qualcosa di già visto, che non graffia. Che non ti fa riflettere, nonostante le molte frasi disseminate sullo schermo durante lo spettacolo. Inedita, invece, la lettura che dal podio offre Zubin Mehta. E la Forza, come si dice, è una delle sue opere, diretta molte volte, anche a Firenze. Qualche piccolo taglio e lo spostamento della scena dell’accampamento e del secondo duetto tra Carlo e Alvaro alla fine del terzo che dunque non finisce più con il Rataplan – d’accordo era così nella versione di San Pietroburgo, ma poi Verdi ci rimette mano, definitivamente, per Milano. Il direttore indiano questa volta imprime alla partitura un passo solenne, meditativo, chiede all’orchestra del Maggio, al coro di Lorenzo Fratini e ai bravissimi solisti tempi dilatati (e lo spettacolo, anche per i lunghi cambi di scena sfiora le quattro ore) che la rendono più oratoriale che teatrale. Interessante, a tratti anche affascinante (il Pace mio Dio si veste di un’inquietudine mai ascoltata grazie anche al colore screziato della voce della Leonora di Saioa Hernandez), ma il rischio è quello di un affresco a due dimensioni, di un colore unico dove tutto è uguale a se stesso e dove, in un appiattimento generale, si perdono tanto la teatralità che l’afflato meditativo di cui la partitura è intrisa.
I cantanti (e la Forza è un’opera che si fa se ci sono le voci adatte tanto è impegnativa e impervia, anche se all’ascolto potrebbe non smembrarlo perché ti conquista con la sua bellezza) reggono bene la prova, soprattutto quella dei tempi dilatati dosando fiato e forze. Saioa Hernandez debutta come Leonora e già ne fa uno dei suoi personaggi più riusciti, imprimendo con la sua voce brunita una malinconica rassegnazione alla protagonista. Roberto Aronica con intelligenza musicale supera tutti gli ostacoli della scrittura vocale con la quale Verdi disegna don Alvaro. Don Carlo è Amartuvshin Enkhbat che non sbaglia (musicalmente) un colpo, anche se quello che manca è lo scavo, anche solo attraverso gli accenti, nelle pieghe del personaggio. Ferruccio Furlanetto è un padre Guardiano che ben unisce autorevolezza e pietà. Caricaturale al punto giusto, nella sua drammatica verità, il Melitone di Nicola Alaimo. Annalisa Stroppa si misura per la prima volta con Preziosilla dando alla zingara la sua irruenza vocale. Leonardo Cortellazzi è un Trabuco di lusso. Giusti per i loro ruoli Valentina Corò (Curra), Francesco Samuele Venuti (Alcade) e Roman Lyulkin (Chirurgo). Tutti applauditissimi insieme a Mehta e, un po’ a sorpresa, al team della Fura. Che, forse, in tempi non di pandemia, sarebbe stato salutato da qualche fischio. Ma la gioia di essere tronati a teatro, per questa volta, fa andare oltre.
Nelle foto @Michele Monasta La forza del destino al Maggio musicale fiorentino