Il direttore svizzero popolare sui social torna a Milano proponendo la Terza accanto alla Settima di Dvorak
Lorenzo Viotti, ovunque vada a dirigere, arriva con un carico pesante sulle spalle. Che non è (tanto) il cognome che porta, figlio d’arte del compianto Marcello, portato via troppo presto dal podio e dai suoi affetti. Ma è il peso (piacevole da portare, verrebbe da pensare) di una fama social che si è costruito in questi anni durante i quali, chi più chi meno, abbiamo imparato che ci sei (esisti nel fantastico mondo virtuale che per mondi è il migliore dei mondi possibile) se sei online, se posti foto e pensieri e se fai collezione di like. Il profilo Instagram del trentenne Viotti (recentemente rimesso in ordine e più istituzionale rispetto a come appariva un tempo) raccoglie oltre 41mila follower, non pochi tenuto conto che quello di Placido Domingo, ottant’anni di vita e più di cinquanta di carriera, ne colleziona 236mila. Foto sul podio in giacca e cravatta, ma anche in maglietta bianca e sneakers, scatti in famiglia, in sella ad una bici da downhill o in costume su una spiaggia del Costa Rica. E da lì Viotti è arrivato direttamente a Milano per un concerto sinfonico con l’orchestra del Teatro alla Scala trasmesso in streaming sui canali social del Piermarini sabato 9 gennaio e visibile sino al 16 gennaio a questo link.
Programmone, come si dice, con una Terza di Brahms anticonvenzionale e una Settima di Dvorak in perenne bilico sull’abisso. Pagine, che Viotti dirige a memoria, apparentate tra loro – perché Dvorak nella sua partitura fa un omaggio esplicito a Brahms – ascoltate (da giornalisti infiltrati speciali) dentro lo streaming, in un Teatro alla Scala senza pubblico, con l’orchestra sulla pedana che ha inghiottito le poltrone di platea. Concerto per fare il punto di una carriera, quella di Viotti, work in progress. Occasione per toccare con mano il percorso compiuto dal direttore d’orchestra (che a vederlo sembra più adulto dei suoi trent’anni) e per intravedere quello che potrà arrivare con studio e pratica, non solo alla guida delle grandi orchestre (Viotti è direttore musicale della Gulbenkian orchestra in attesa di assumere l’incarico di direttore principale della Netherlands philharmonic, della Netherlands chamber orchestra e della Dutch national opera di Amsterdam), ma anche con quella sana gavetta sul podio di formazioni disponibili a sperimentare, a farsi strumento e laboratorio per gli esperimenti di un giovane direttore.
Il Brahms che verrà (nel percorso musicale del musicista svizzero) è quello che Viotti, nella sua (quasi) tuta (elegantissima) di velluto nera (da Instagram sappiamo che è un modello di Armani), ha fatto intravedere nella sua lettura anticonvenzionale (orchestra non proprio impeccabile e non sempre in appiombo, specie tra gli ottoni) della Sinfonia n.3 in fa maggiore, lontana dal tragico romanticismo che i grandi direttori hanno impresso nel tempo alla pagina (e potrebbe essere un aspetto interessante per un Brahms inedito che si potrà ascoltare col tempo), ma forse troppo sbilanciato su una vitale leggerezza che, però, non si è sporcata le mani con la quotidianità. Quotidianità, sempre filtrata da una lente di educazione e raffinatezza, che c’è nel bis sempre brahmsiano messo da Viotti a suggello del concerto con la Danza ungherese n.1, profumo dell’Est, ritmo tzigano, rubato francese e spensieratezza danzante viennese.
Quotidianità che c’è nella luciferina velocità impressa da Viotti nella sua convincente versione della Sinfonia n.7 in re minore di Dvorak, tutta sull’orlo dell’abisso, capace di farti intravedere una felicità, ma di farti subito affacciare sul baratro dell’infelicità e dell’angoscia che sono in agguato.