L’opera di Rossini in streaming dal Comunale di Modena con la bacchetta di Aldo Sisillo e la regia di Nicola Berloffa La storia è un romanzo di formazione che racconta la vita
Non è più tempo per le favole. E, forse, non è solo il periodo che stiamo vivendo – tempo di disillusioni, di porte in faccia da parte della realtà, di occhi aperti sul fatto che al mondo non siamo soli – a dircelo. Lo racconta l’arte (almeno quello che ne resta in periodo di pandemia) che, inevitabilmente e per adempiere davvero al suo compito, è (deve essere) uno specchio della vita. Così Cenerentola, La Cenerentola con l’articolo determinativo davanti, di Gioachino Rossini perde il suo sapore (a volte un po’ zuccheroso) di favola – che forse non ha mai avuto dato che la partitura del 1817 è catalogata come dramma buffo – e racconta, anche in modo ruvido, la nostra quotidianità. Senza tempo.
La Cenerentola come una commedia borghese, anche feroce nel descrivere quanto possono essere spietati i rapporti umani; come un romanzo di formazione dove si racconta che per diventare adulti occorre inevitabilmente passare attraverso il dolore. È La Cenerentola di Rossini messa in scena al Teatro Comunale Luciano Pavarotti di Modena da Nicola Berloffa con Aldo Sisillo sul podio. A porte chiuse, naturalmente. Buona la prima, con la registrazione del live il 22 dicembre alla vigilia del Natale (ero in un palchetto di second’ordine e inutile dire il piacere di poter assistere, quasi in solitaria, a un’opera dal vivo – e quasi ci prendi gusto a vedere uno spettacolo solo per te) e lo streaming il 30 dicembre, alle porte del 2021. Spettacolo pensato a misura di schermo del computer o della smart tv. E qualche volta l’effetto è di essere su un set, con Angelina che, nel rondò finale, guarda dritto in camera per raccontare che «la sorte mia cangiò» e che d’ora in poi accanto al fuoco sarà più «sola a gorgheggiar». È vero, ha sposato il principe, ma a leggere (ascoltare) bene i versi finali sembra di capire che starà ancora accanto al fuoco, ma non più da sola.
Ecco la magia che rende la vita una favola, il passare dall’io al noi. Non importa dove, se in un castello o accanto al fuoco. Racconta questo lo spettacolo di Berloffa, racconta di due solitudini che si incontrano (e si completano), quella di Angelina, la Cenerentola del tiolo che tutti sanno essere oppressa dal patrigno Don Magnifico (che prende il posto della matrigna che tutti conosciamo dal cartone animato della Disney), e quella del principe Ramiro, talmente solo che cerca (come Adamo nell’Eden) un’altra simile e complementare a sé. Sarà il distanziamento imposto dalle regole anti Coivid, ma questa volta l’essere soli dei personaggi è ancora più evidente: sole (e non gemelle siamesi come sempre) le sorellastre Clorinda e Tisbe, piccole donne (anche nei riferimenti iconografici dei costumi ideati dallo stesso Berloffa) in cerca d’autore (un principe forse, sicuramente di qualcuno che le ami). Solo Dandini (che qui, felice intuizione, è ciò che dice il suo nome, un dandy che finisce per essere tragicomica caricatura di se stesso) che (per noia?) accetta di essere principe per un giorno. Solo Don Magnifico nella sua divisa piena di decorazioni vuotamente altisonanti, incapace di amare la figliastra e di accogliere il suo perdono. Solo, nel suo saio di frate questuante (altra idea azzeccata), persino Alidoro che non è l’altra faccia della fata madrina, ma un clone/replicante dei servitori di Ramiro.
Solitudini che mutano (alcune si evolvono, altre restano al palo) nel corso del romanzo di formazione che Berloffa immagina per la sua Cenerentola, un racconto che si apre in una grande cucina vittoriana, in pieno ottocento: pentole sul fuoco, sorellastre intorno al fuoco del camino, atmosfere alla Piccole donne nel palazzo di don Magnifico e nel castello del principe Ramiro modellato perfettamente sul Royal pavillon di Brighton (le scene sono di Aurelio Colombo, le luci di Valerio Tiberi). Luoghi concreti perché la storia di Angelina potrebbe essere quella di tane (e tanti) che sognano un futuro migliore. Ragione e sentimento, niente magia anche se, omaggio a Luca Ronconi con il quale Berloffa ha collaborato a lungo, la trasformazione di Cenerentola avviene nel grande forno della cucina (Ronconi, a Pesaro la faceva entrare nel camino e volare a palazzo trasportata da una cicogna) dove Angelina entra con i suoi abiti da lavoro e ne esce, bellissima, tutta vestita di bianco.
Commedia borghese tutta giocata nell’interno semicircolare del castello, commedia umana con le maschere che cadono per lasciare posto a tic, deformità, stranezze nelle quali riconoscersi. E sulle quali e delle quali ridere. Meglio, sorridere. Perché la musica di Rossini non è mai un ghigno sguaiato. La dirige così, dal podio dell’Orchestra filarmonica italiana, Sisillo: un Rossini dal passo narrativo efficace, pulito, senza sovrastrutture, che arriva nella sua architettura perfetta, una musica velata a tratti di malinconia, come la vita che ha dentro. Sisillo tiene bene le fila del discorso musicale in sintonia con la narrazione registica e in un dialogo sempre efficace tra buca e palcoscenico dove si muove un cast di specialisti rossiniani. Tutti interpreti affidabili, fedeli al dettato rossiniano.
Paola Gardina è un’Angelina lirica, dalla voce limpida e dall’acuto facile e luminoso, sempre timbrata nelle zone brune del personaggio. Acuti squillanti, tutti a segno, anche per il Ramiro di Antonino Siragusa, garanzia di tecnica e musicalità rossiniana. Corrette le sorellastre di Floriana Cicio (Clorinda) e Ana Victoria Pitss (Tisbe), puntuale l’Alidoro di Ugo Guagliardo. Non solo, però. Perché alcuni interpreti sono anche attori eccellenti, con l’oscar che va a Nicola Alaimo, Don Magnifico che conquista per la misura e la verità che il baritono offre al suo personaggio: una maschera tragica, anzi tragicomica, mai sopra le righe (e per questo ancora più disarmante), che ricorda i ritratti dell’italiano della porta accanto (nel quale tutti, drammaticamente, ci riconosciamo) portati sul grande schermo da Alberto Sordi. Alaimo, che mette la sua generosità al servizio della regia, canta magnificamente e mette un punto fermo – una pietra del paragone diremmo – nell’interpretazione rossiniana. Rossiniano doc anche Nikolay Borchev al suo debutto in Italia, e si vede (si sente) nell’emozione con la quale affronta la cavatina di Dandini, personaggio che il baritono russo riveste di quella caricaturalità che ce lo rende subito simpatico.
Arriva il temporale che fa sbattere le finestre nella cucina di Don Magnifico. Angelina, tornata dal ballo quando la mezzanotte è scoccata, è sola. Ha paura. Perché sa che sta diventando (deve diventare) adulta. E che per lei, come per tutti sembra dirci la realtà, è finito il tempo delle favole.
Nelle foto @Rolando Paolo Guerzoni Cenerentola al Comunale di Modena