La confezione di A riveder le stelle, la Prima della Scala in formato tv, ricordava un po’ quella del Festival di Sanremo. Magari nella serata tributo con grandi voci impegnate in un omaggio alla musica italiana. E così è stato per lo spettacolo che ha inaugurato su Rai1 la nuova stagione (che non si sa, comunque, quando inizierà e come) del Piermarini, come tradizione vuole, la sera del 7 dicembre, festa di Sant’Ambrogio. Confezione ideale anche da fruire in futuro su YouTube, videoclip delle arie più famose della storia del melodramma da ripostare sui social e da acoltare (e vedere) come si fa con le hit del pop e del rock. Ecco allora l’idea, come si fa con il festival, delle pagelle ai cantanti che si sono esibiti nel grande concerto diretto da Riccardo Chailly (provato e registrato dal 1 dicembre sino a un’ora prima della messa in onda). Una recensione insolita per una Prima fuori dall’ordinario.
Luca Salsi 10
Cortigiani vil razza dannata da Rigoletto di Giuseppe Verdi
A lui il compito di aprire la serata, di scaldare la platea virtuale con il celeberrimo Cortigiani vil razza dannata dal verdiano Rigoletto che il baritono riveste di un dolore tutto interiore, mai plateale o esibito. Salsi, che mette la sua voce (bella) al servizio della musica, sfodera un canto misurato, scolpito nella parola e nelle note di Verdi che (ci) raccontano chi siamo. A Salsi, poi, anche la chiusura della serata partita con la maledizione di Rigoletto e culminata nel do maggiore del finale del Guglielmo Tell di Rossini dove il baritono offre il suo timbro inconfondibile all’eroe svizzero.
Vittorio Grigolo 5.5
La donna è mobile da Rigoletto di Giuseppe Verdi
Non raggiunge la sufficienza il tenore (che vorrebbe essere tenorissimo) che, al solito, gigioneggia (troppo e, certo, la piuma che Livermore gli mette in mano certo non aiuta) ne La donna è mobile dal Rigoletto. La voce è bella, il timbro luminoso, ma la sensazione è sempre quella che Grigolo canti e si atteggi (sia che faccia Romeo o, come qui, Duca di Mantova) come un eterno Nemorino dell’Elisir d’amore tra smorfie e ammiccamenti che i primi piani delle telecamere amplificano. Difficile l’intesa musicale con Chailly, almeno vedendo il direttore che non lo molla un secondo dirigendo tutta l’aria con le spalle all’orchestra.
Ildar Abdrazakov 10
Ella giammai m’amò da Don Carlo di Giuseppe Verdi
Perfetto, il basso russo, per i tormenti (che non sono senili, ma di un giovane adulto) di Filippo II nell’Ella giammai m’amò dal verdiano Don Carlo. Voce di velluto, scavo interiore per Abdrazakov che tratteggia, nel tempo di un’aria, un personaggio complesso come quello del re di Spagna. Uno dei momenti più intensi della serata come tutta la sequenza su Don Carlo con Livermore che ha sapientemente “riciclato” il tremo usato come scenografia nel suo allestimento del Tamerlano di Haendel.
Ludovic Tezier 8
Morte di Rodrigo da Don Carlo di Giuseppe Verdi
Impeccabile, (quasi) come sempre, il baritono francese regala un’intensa scena del carcere dal Don Carlo. Linea di canto impeccabile, capacità di racconto per un appassionato (qualcuno ci vede sempre un po’ di freddezza e distacco, però) Carlo ascolta e per un Io morrò, ma lieto in core tra l’allucinato e il trasognato. Anche in frac la morte di Rodrigo è sempre un colpo al cuore, la morte dell’innocenza.
Elina Garanca 9.5
O don fatale da Don Carlo di Giuseppe Verdi
Bella e brava il mezzosoprano è una Eboli perfetta, che affascina con il solo timbro della voce (solo alcuni gravi sembrano troppo cupi). Misura e stile nei cantabili, carattere nei passaggi più serrati, acuti timoratissimi e lucenti la Garanca regala un O don fatale vero e intenso che arriva a chiusura del riuscitissimo quadro sul verdiano Don Carlo.
Lisette Oropesa 9
Regnava nel silenzio da Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti
La Lucia che si sarebbe dovuta ascoltare per intero a questa Prima. Inedita, perché l’aria Regnava nel silenzio e la cabaletta (con cadenza che sulle prime spiazza perché diversa da quella che si ascolta solitamente) Quando rapito in estasi risuonano nella versione originale di Donizetti del 1835 (quella andata in scena a Napoli) ricostruita da Roger Parker e messa sul leggio da Chailly. Tessitura più alta che il soprano affronta con la sua tecnica impeccabile disegnando un personaggio quasi metafisico (lo suggerisce anche la citazione pittorica di Vetteriano fatta da Livermore), prototipo di tante donne innamorate e di Lucia che la Oropesa riveste della sia voce dal colore antico.
Kristine Opolais 7
Tu, tu, piccolo iddio da Madama Butterfly di Giacomo Puccini
Breve e intenso il ritratto che il soprano fa di Madama Butterfly un istante prima del suicidio, Tu, tu, piccolo iddio. Voce tagliente quella della Opolais che resta, però, un po’ distante dal personaggio pucciniano, come se lo guardasse dall’esterno. Sullo schermo dove, alle sue spalle, si compie la tragedia in un gioco di ombre nere.
Rosa Feola 8.5
So anch’io la virtù magica da Don Pasquale di Gaetano Donizetti
Vola su Roma, sulla decapottabile de Il sorpasso (stessa scena che Livermore ripropone dal suo spettacolo), la Norina del Don Pasquale di Donizetti che il soprano ripropone (vincendo) dopo averla cantata in teatro due anni fa. Carattere, presenza scenica spigliata e voce godibilissima per la Feola (che svetta anche nel Tell che chiude la serata), interprete ideale delle donne di carattere del belcanto.
Juan Diego Florez 10
Una furtiva lagrima da L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti
Un Nemorino con il Rolex, che spunta dal polsino della camicia del tenore peruviano. Nemorino che ancora sa fare centro, anche se Florez sta via via affrontando ruoli diversi da quelli che lo hanno consacrato star mondiale – ma nel finale del Tell torna al suo Rossini. Patetico e drammatico al punto giusto, il tenore colora la sua voce (fiati interminabili, acuti facilissimi, pianissimi da brivido) di sfumature malinconiche e disegna il miglior Nemorino oggi possibile, non maschera (tragi)comica, ma uomo reale che ama e soffre.
Alexandra Kurzak 7.5
Signore ascolta da Turandot di Giacomo Puccini
Trova il suo abito ideale in Liù (che non è quello che le hanno messo indosso Dolce e Gabbana, troppo carta da cioccolatino) il soprano che in altre occasioni non era stata interprete così convincente. Acuti lucenti e sfumati in pianissimi emozionati per la Kurzak, intensità nel disegnare, immobile su uno specchio d’acqua, il ritratto di una ragazza innamorata che si sa sconfitta in partenza. Tenuta per mano, in questo ultimo e sempre straziante, Puccini da Chailly.
Marianne Crebassa 8.5
L’amoue est un oiseau rebelle da Carmen di Georges Bizet
Sensualità sofisticata nella scena della seduzione dell’Habanera della Carmen per il soprano francese. Imperturbabile in viso, la Crebassa (impegnata anche nel finale rossiniano) usa la sua voce (che non è mai scura e cupa come tante Carmen che si sono ascoltate nel tempo) per catturare l’amante (l’ascoltatore in questo caso) in una spirale da far girare la testa. Un canto ammaliante (Bizet ipnotico di Chailly) che si attorciglia come un laccio che non lascia scampo.
Piotr Beczala 7.5
La fleur que tu m’avais jetée da Carmen di Georges Bizet
Uno squarcio di luce nel mezzo di un sogno che ha i contorni dell’incubo. Perché La fleur che Don José canta nel cuore della Carmen di Bizet arriva come un’oasi di bellezza, un po’ di aria fresca sulle atmosfere sinistre che si insinuano ed evocano il tragico finale. Anelito di un cuore (ancora) puro al quale il tenore offre slancio e canto melanconico. Tecnica e gusto sfoderate da Beczala in una tra le pagine più amate del melodramma.
Eleonora Buratto 8
Morrò, ma prima in grazia da Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi
Verdi è nelle sue corde. Ma anche Rossini, a sentirla nel finale del Tell. Lo ha dimostrato più volte il soprano mantovano che per ora affronta solo l’aria di Amelia del Ballo. Ottimo biglietto da visita, però, questa prova per la Buratto che rende carne il dolore di una madre che il marito vuole uccidere. Gli uccelli voluti come sfondo da Livermore sono lo scenario inquietante sul quale si staglia il canto dolente e grondante dolore della Buratto.
George Petean 8
Eri tu che macchiavi quell’anima da Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi
Toni ver(d)isti smorzati con classe (e ottima tecnica) dal baritono nell’invettiva di Renato del Ballo. Eri tu che macchiavi quell’amima canta Petean che ha voce bella, luminosa, musicale. Voce che il baritono, affidabile come sempre, usa al meglio screziandola di nostalgia e restituendo in mondo inedito e al tempo stesso ancorato alla tradizione del canto verdiano il ritratto di un uomo tradito dalla vita.
Francesco Meli 7.5
Ma se m’è forza perderti da Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi
Spunta la foto di Marilyn Monroe tra le mani di Riccardo del verdiano Ballo in maschera. Livermore metteil protagonista, nmella sua celebre aria del terzo atto, seduto alla scrivania dello studio ovale della Casa Bianca. Il tenore genovese ha fatto di Riccardo uno dei suoi cavalli di battaglia, modellato con intelligenza sulla tradizione. Meli lo affronta con il piglio sicuro di sempre insieme alla sua bella linea di canto (che forse, nel momento clou, si increspa un poco per l’emozione).
Benjamin Bernheim 8.5
Porquoi me réveiller da Werther di Jules Massenet
Interpretazione impeccabile e piena di pathos da parte del tenore per i dolori del giovane Werther. Bernheim sfodera acuti sicuri e affilati, riuscendo a far trasparire, nel giro di una manciata di minuti, tutta la noia e il fastidio n ei confronti della vita che avvolge il personaggio uscito dalla penna di Goethe e messo in musica da Massenet. Stile e raffinatezza che si specchia nel ricamo melodico chiesto all’orchestra da Chailly.
Carlos Alvarez 10
Credo da Otello di Giuseppe Verdi
La Casa Bianca in rovina e in fiamme – così la lascia Trump? – ossessione di Livermore. Ecco lo sfondo per il Credo di Jago dell’Otello di Verdi che il baritono scolpisce e rende, se possibile, ancora più inquietante del solito. La voce di Alvarez è un fiume in piena di bellezza, incanalata in un corso carsico che a tratti emerge nella sua potenza travolgente. Interpretazione maiuscola, alla quale non serve nulla se non la fedeltà al testo musicale verdiano.
Placido Domingo 6
Nemico della patria da Andrea Chénier di Umberto Giordano
Sufficienza all’artista che è stato. Perché ancora una volta il tenore, ora baritono (che canta, però, da tenore), nonostante l’indubbio carisma scenico che usa per risolvere ad arte i suoi gap, non convince. Canta (sbagliando alcune parole, ma dato che era tutto registrato perché non ripetere?) il grande discorso politico di Gerard dell’Andrea Chénier davanti a microfoni da dittatore sudamericano con il suo timbro inconfondibile che ti fa rimpiangere lo Chénier che è stato.
Sonya Yoncheva 5.5
La mamma morta da Andrea Chénier di Umberto Giordano
Interpretazione pallida e abbastanza ordinaria quella del soprano per l’accorato canto di Maddalena che si staglia su un quadro che richiama la Marianna di Delacroix. Voce piena (anche troppo) di vibrato quella della Yoncheva che spegne la carica rivoluzionaria (non perché ambientata ai tempi della rivoluzione francese, ma perché parla della forza dell’amore) della musica di Giordano. Peccato.
Roberto Alagna 8.5
E lucevan le stelle da Tosca di Giacomo Puccini
La voce ha conservata intatta la bellezza di un tempo. La zampata è ancora notevole. Il tenore mette a segno un rientro alla Scala alla grande (dopo l’addio in scena durante la seconda recita di Aida nel 2006) con un commovente E lucean le stelle dalla pucciniana Tosca. Alagna ha cantato tanto e di tutto. E si sente, ma riesce ad addomesticare la sua voce restituendo, solo stando seduto, la verità dell’addio al mondo di Cavaradossi.
Marina Rebeka 6
Un bel dì vedremo da Madama Butterfly di Giacomo Puccini
Tutto è a posto, intendiamoci. Ma l’emozione fatica ad arrivare nell’interpretazione del soprano che è una Butterfly corretta, con le note e gli acuti a posto. Ma niente di più. La Rebeka non stona e non cala, restituisce la scrittura di Puccini che Chailly da podio distilla e colora di dolore, ma il dolore della gheisa avrebbe forse bisogno di una profondità maggiore.
Piotr Beczala 8
Nessun dorma da Turandot di Giacomo Puccini
Quello del tenore è un Calaf abbastanza inedito. E non solo perché avrebbe dovuto cantarlo Jonas Kaufmann costretto a cancellare la sua presenza per un’indisposizione. Perché Beczala fa un principe meno eroe /e dunque meno stentoreo e urlato) del solito, più lirico, più uomo. E mette a segno senza battere ciglio l’acuto tanto atteso del Vincerò. Pagina, questa, nella quale entra anche il coro di Bruno Casoni distanziato nei palchetti e avvolto dalle stelle he invadono lo schermo grazie alla realtà aumentata.
Roberto Bolle 10 e balletto 5
Il massimno dei voti per l’etoile del Teatro alla Scala che osa, ancora una volta, con un pezzo modermo (la coreografia è di Massimiliano Volpini) su musiche di Davide Boosta Dileo ed Erik Satie. Laser e fumo per una versione 2.0 dell’Uomo vitruviano. Fisico scultoreo, tecnica dalla perfezione immutata, Bolle offre un momento di danza a misura di tv, come quelli del suo ormai tradizionale appuntamento del 1 gennaio su Rai1 con Danza con me. Insuficienza, invece, al balletto, Non per i primi ballerini impegnati nel classico Schiaccianoci di Nureyev e in uan fantasia su musiche di Verdi ideata dal neodirettore del Corpo di ballo Manuel Legris (Michele Gamba ha diretto con gusto i momenti di danza). Ma perché i tre quadri sono sembrati fuori contesto nel disegno melo-drammatico dello spettacolo.
Riccardo Chailly 10
Un grande lavoro quello fatto dal direttore d’orchestra milanese che ha avuto sul leggio sette autori e quattordici titoli diversi. Stili differenti, atmosfere agli antipodi nel giro di pochi minuti. Un filo rosso ad attraversare tutte le pagine, una solenne pacatezza, un piglio meditativo che Chailly ha impresso a Verdi e Donizetti, a Puccini e Giordano, a Bizet e Massenet fino a Rossini, suggello finale, davvero commovente: nella sua oratorialità da preghiera laica il concertato che chiude il Guglielmo Tell ha portato una luce inaspettata e necessaria – quella che illuminava la Madonnina nella notte milanese delle immagini che scorrevano sullo schermo – in un percorso (pensato quando la pandemia mordeva, nel cuore della seconda ondata) dove era facile essere risucchiati dal nero del pessimismo. Suono compatto e ogni volta in stile quello sfoderato dall’orchestra della Scala, distanziata in platea, ma capace di farsi un unico corpo.
Davide Livermore 5
La mano del regista capace di risolvere teatralmente (e cinematograficamente e televisivamente) le siutuazioni c’è. E il mestiere è fuor di dubbio. Quello che non ha funzionato è il carico, emotivo, ma anche temporale, dei testi che hanno fatto da raccordo tra un blocco musicale e l’altro. Se Massimo Popolizio ha la capacità innata (attraverso l’ironia) di rendere “leggero”, ma allo stesso tempo profondo tutto ciò che dice, Laura Marinoni sfodera sempre un tono sin troppo drammatico, da tragedia, che Livermore chiede a tutta la squadra di attori. Tanta retorica nazionalpopolare (in immagini, spesso didascaliche, e parole), militanza politica (Livermore appare prima del finale per ribadire le sue idee sulla cultura) e sociale un po’ fuori contesto (il contesto è la Prima della Scala trasmessa alle 17 di un lunedì pomeriggio su Rai1) appesantiscono una narrazione che avrebbe potuto essere più snella, forse solo poetica nell’apparizione della Musica mentre la voce di Mirella Freni fa risuonare ancora una volta l’Umile ancella di Cilea.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala lo spettacolo A riveder le stelle
La foto di Roberto Bolle in Waves è di @Andrej Uspenski