Marino Faliero ha inaugurato in diretta streaming e tv l’edizione 2020 del Donizetti opera festival di Bergamo Riccardo Frizza sul podio, regia in platea di ricci/forte
La sensazione è quella di essere dentro un sogno. Di quelli strani, non per forza un incubo, che qualche notte capitano. Sogni che già mentre li fai cerchi di interpretare, di decodificare nella loro scrittura criptata di onirico. Ma che forse è meglio vivere e basta e riprendere in mano (o forse no) all’alba. Silenzio. Irreale (impensabile sino a qualche tempo fa) per un teatro prima di uno spettacolo. Orchestra in posizione. Entra il direttore – che è Riccardo Frizza. Nessuno applaude. Un gomito a gomito con il primo violino. I musicisti si siedono. Tutto in un silenzio ovattato. Da sogno, appunto. Immagine da pugno nello stomaco, il fastidio lo senti addosso. Lo senti dentro. Ti rimbomba, strano a dirsi visto che sei immerso nel vuoto dei suoni, in testa. Perché è come se qualcuno di colpo avesse tolto l’audio alla vita, passato il dito su uno schermo touch e messo la barra sul simbolo dell’altoparlante. Ma è un attimo, perché sulle note ribattute della tromba, si riattiva l’audio, torna il suono.
Il suono/il non suono della musica al tempo del Covid – che a Bergamo, nella prima ondata, ha colpito duro. Perché la pandemia, ancora una volta, ha chiuso (ancora prima di altri luoghi) i teatri. O meglio. Ha lasciato fuori dalle sale il pubblico. Ma non ha impedito – non lo hanno fatto, diversamente dal primo lockdown, le restrizioni imposte dal governo – di provare, di produrre, di andare in scena. A porte chiuse. Nel silenzio irreale e inquietante di una sala vuota. Silenzio che abbiamo ascoltato (e sentito, freddo, sulla pelle) dal vivo, defilati in un palchetto di terz’ordine (abito scuro, mascherina nera) per non entrare nell’inquadratura delle telecamere, al Teatro Donizetti di Bergamo. Silenzio all’inizio del Marino Faliero, titolo inaugurale dell’edizione 2020 del Donizetti opera festival, tutta in streaming (diretta della prima su Rai5 con lo spettacolo visibile ora su RaiPlay) sulla web tv della rassegna dedicata al compositore bergamasco.
Scale, passerelle, ponteggi metallici si sono impadroniti della platea del Donizetti, teatro restaurato di recente e inaugurato (solo) virtualmente (la cerimonia doveva essere proprio in questi giorni) dallo spettacolo di ricci/forte. Anch’esso un sogno/incubo nella sua modernità sghemba, nel suo mettere in scena un mondo, onirico appunto, popolato di strani personaggio che sembrano usciti da una sfilata di moda, di quelle con abiti che mai indosseresti nella vita di tutti i giorni. Personaggi che hanno volti (e corpi) che si trasformano e si deformano tanto più il potere si corrompe, coperti da mascherine, schermati da specchi che riflettono, inquietanti nel buttarti in faccia bocche spalancate da strumenti (di tortura?), bocche che vorrebbero gridare un dolore, ma dalle quali non esce un suono. Burattini nelle mani di un potere – che è ora dell’uomo ora dell’altro a dire che tutti siamo vittime e carnefici in un gioco di ruolo che si può ripetere all’infinito – che dimentica l’uomo. Lo deforma. Lo uccide.
Perché, sui ponteggi della scenografia di Marco Rossi, ci sono (forse) solo cadaveri. Non solo alla fine, quando il libretto racconta la morte di Fernando e di Faliero, Ma durante tutto lo spettacolo. Morti viventi che ripropongono in un incubo che ha i contorni del reale una storia avvenuta nella Venezia del 1355 e che perennemente ritorna. L’immaginario di ricci/forte è marcatamente pop, sneaker e giacche damascate, cappotti militari e stivali dorati (i costumi sono di Gianluca Sbicca) evocano un mondo (il nostro, raccontato/incarnato da certa tv) dove l’estetica si fa (unica) etica. Marcatamente amplificato, sottolineato a tinte forti, per fargli urlare, nel silenzio di un immagine, un disagio. Il disagio di vivere, di amare, di governare… e di veder fallire tutto quanto. Fantasmi (che potremmo essere noi) che, come personaggi in cerca d’autore, prendono vita sulle note di Donizetti.
La storia, sembrano dire ricci/forte con questo spettacolo (meno visionario del solito), dobbiamo (ri)scriverla noi. La regia di Stefano Ricci (che ha curato tutto il progetto con Gianni Forte) non descrive, non porta avanti una narrazione univoca (magari anche parallela) della storia, piuttosto suggerisce, fa intravedere. Non mette in scena una visione a senso unico (certo modernizzata) della storia di Marino Faliero, solo doge nella storia di Venezia condannato a morte, offre possibilità: muove personaggi tra scale e passerelle, personaggi che non si sfiorano, non si trovano (pur cercandosi), non si toccano restando in una perenne solitudine – e così la contingenza delle regole anti Covid, tra distanziamento, mascherine e sanificazione (in scena gel e spry, presidi chirurgici o in stoffa fashion) diventa poetica della distanza e dell’incomunicabilità del (nostro) mondo.
Mondo, il nostro, a un bivio, imposto dalla pandemia che non è solo emergenza sanitaria, ma nuova torre di Babele per un uomo che vuole raggiungere un’onnipotenza (tecnologica, scientifica, di sentimenti) che lo rende uguale a dio. Mondo senza punti di riferimento. Che vaga. E si specchia nel moto perpetuo dei personaggi del Marino Faliero sui ponteggi nella platea del Donizetti, contrappuntato dall’azione di sei performer che danno corpo (deformato, sghembo, precario, in bilico perenne sull’abisso) ai sentimenti, in un poco rassicurante cardiogramma visivo fatto di disegni coreografici (di Marta Bevilacqua) dissonanti rispetto alla musica.
Musica che è puro belcanto. Musica che Donizetti scrive nel 1835 e dove non c’è nulla di rassicurante, anzi. Ci sono squarci di un Novecento che verrà, ombre sinistre per raccontare un potere decadente, specchio (forse) dell’oggi. Opera politica che Riccardo Frizza dal podio tiene saldamente in pugno. Orchestra per metà in platea (al posto del golfo mistico rialzato) e per metà sul palco: davanti al direttore gli archi, alle sue spalle i fiati e il coro. Due leggii per una direzione a 360 gradi. Angolazione che non è solo legata allo spazio fisico, ma soprattutto alla capacità di Frizza di tenere insieme nella sua lettura un mondo sonoro che cambia colori e intonazioni (di sentimento) continuamente. La musica canta, tiene le fila del discorso quasi fosse un poema sinfonico dove le voci si fanno tutt’uno con gli strumenti (efficace la prova dell’orchestra Donizetti opera) nel dipingere le sfumature fredde di un mondo di morti viventi.
Un mondo cupo, chiuso alla speranza. La speranza che non c’è nel Faliero, piegato dal destino sin dal suo ingresso in scena, di un eccellente Michele Pertusi che mette nel suo canto nobiltà, misura, stile e gusto. Elena è un’intensa Francesca Dotto, interprete sensibile, in costante crescita capace di arrivare a una verità sconvolgente nel finale, dove il suo volto si riga di lacrime. A dar corpo a Israele è un sorprendente Bogdan Baciu, baritono dalla voce luminosa e calda, piena e pastosa, restituita sempre con naturalezza. Fernando è il generoso Michele Angelini (voce bellissima e acuti svettanti presi senza alcuna fatica), ma in difficoltà (di intonazione e di tenuta di volume e linea di canto) nell’affrontare una parte impervia per problemi alle corde vocali arrivati in corso di prove per il tenore arrivato in corsa a sostituire l’indisposto Xavier Camarena. Tutti cantanti/attori intensi. Corpi tra quelli dei performer quelli di Christian Federici, Dave Monaco e Anais Mejias. Voci, che arrivano quasi da un mondo di ombre, quelle di Giorgio Misseri, Diego Savini, Vassily Solodkyy e Daniele Lettieri.
Il buio scende improvviso sull’ultima nota. E fa ripiombare nel silenzio il teatro. Silenzio che accompagna (ed è un altro pugno nello stomaco, non meno violento del primo) l’uscita degli artisti per gli applausi. Applausi che non ci sono, non rompono il silenzio mentre cantanti e performer riguadagnano i ponteggi e le maestranze del Donizetti entrano in platea. Ad applaudire e applaudirsi. Così quell’applauso che era mancato arriva. Liberatorio. Insieme alle lacrime.
Nelle foto @Gianfranco Rota Marino Faliero al Donizetti opera di Bergamo