Il direttore inaugura la nuova stagione di Santa Cecilia affiancando il Te Deum a Das lied von der Erde
All’inizio c’è l’affidamento. «Te Dominum confitemur». C’è quella confidenza carica di affetto del chiamare Dio per nome, di proclamarlo Signore della nostra vita. Una certezza. Che Anton Bruckner riveste di musica granitica, scolpendo nel marmo la parola liturgica, quella che loda per dire «grazie». Paola potente e disarmante, ti si riversa subito addosso nelle note ribattute che, nel loro ricordare il suono dell’orchestra che accorda, evocano un (nuovo) inizio. Una certezza, un affidamento – necessari oggi mentre la paura torna a cercare di far breccia nelle nostre fragilità – che arrivano (programmaticamente) come prima cosa che l’Accademia nazionale di Santa Cecilia e Antonio Pappano vogliono dire inaugurando (con un programma ripensato dopo che il Covid ha costretto ad accantonare il progetto dei Meistersinger di Wagner) la nuova stagione sinfonica.
Bruckner e Gustav Mahler (si replica oggi alle 18 al Parco della musica e si può riascoltare il concerto su RaiPlay) per il primo appuntamento del cartellone disegnato da Pappano e dal sovrintendente Michele Dall’Ongaro. Che si apre con un Te Deum che per il direttore italo-britannico è un grido – e lo senti nell’energia che Pappano mette nel braccio, ma anche nel buttare il cuore sempre avanti, respirando, cantando con i suoi musicisti per dire una preoccupazione e insieme una speranza. Un grido di chi, immerso nella vita, si affida. «In te, Domine, speravi» detto con un punto esclamativo da Bruckner alla fine di un viaggio, quello del Te Deum appunto, nel quale, grazie alla lettura intensa e solenne di Pappano e all’ottima prova del coro (i solisti Donika Mataj, Daniela Salvo, Anselmo Fabiani e Antonio Vincenzo Serra arrivano dalla formazione di Piero Monti), la preghiera si fa autobiografia in musica del nostro tempo attraversato dal dolore e dalla paura della morte.
«Canto di uomini alla ricerca di Dio» diceva Mahler dirigendo proprio il Te Deum di Bruckner. Dopo il quale a Santa Cecilia arriva Das lied von der Erde di Mahler, sinfonia per contralto (Gerhild Romberger), tenore (Clay Hilley) e orchestra che diventa l’ideale prolungamento e al tempo stesso compimento della pagina di Bruckner. Perché nel Canto della terra l’uomo che ha detto la sua speranza in Dio si racconta, si consegna nella sua disarmata e poetica fragilità – i testi di Hans Bethge che evocano con nostalgia autunnale la bellezza e la giovinezza sono ispirati a versi di poeti cinesi. Istantanee di vita, miniature dai colori sfumati che Pappano “dipinge” con i musicisti di Santa Cecilia, guidati (per la prima volta dopo che ha vinto il concorso come spalla lo scorso gennaio) dal primo violino di Andrea Obiso.
E alla fine, insieme alla Terra, l’uomo torna a cantare la primavera, tempo (anche della vita) in cui l’orizzonte si illumina «eternamente d’azzurro». Detto quasi con un sussurro da Mahler questo «ewing», con la voce del contralto che resta nell’aria. Quella stessa aria squarciata prima dalla potenza dell’«in aeternum», un altro «per sempre» che Bruckner (con la liturgia) mette alla fine del Te Deum, «non sarò confuso in eterno». Bruckner lo vuole potente, certezza alla quale aggrapparsi, Mahler lo lascia lì sospeso, quasi un’eco che vibra mentre scatta l’applauso calorosissimo del pubblico (distanziato, come orchestrali e coristi sul palco). Comunque sguardo in avanti, con la forza di Bruckner o con la leggera nostalgia di Mahler, al quale affidarsi per (tornare a) sperare.
Nelle foto @Musacchio, Ianniello e Pasqualini il concerto inaugurale della stagione 2020/2021 di Santa Cecilia
Articolo pubblicato su Avvenire del 18 ottobre 2020