Il direttore ha inaugurato la stagione dell’Orchestra Rai proponendo una lettura piena di vita di Quarta e Settima
Il bisogno di musica, e fa un certo effetto dirlo di qualcosa che per definizione non ha corpo, è fisico. Oggi (inteso come settimane post lockdown) più che mai. Perché ascoltare musica “è” un’esperienza fisica. E non solo per il fatto che la percezione di ciò che parrebbe solo aria passa attraverso uno dei sensi, dunque attraverso un corpo (il nostro). Ascoltare è lottare (a volte è abbandonarsi, altre trovare consolazione, altre ancora sentirsi inquieti…) e uscire da questo confronto cambiati. È farlo dal vivo, “in presenza” come siamo abituati ormai a dire (i neologismi da Covid). Tanto che la mancanza, in questi mesi di chiusure e di lontananza dai teatri e dalle sale da concerto, è stata anche (forse soprattutto) una mancanza fisica. Perché a volte non c’è nulla di più concerto, di più carnale e materico del sentimento, quello che la musica veicola e stana nelle pieghe segrete e a volte sconosciute dell’anima (o del corpo, appunto).
Pensieri a margine, forse meglio dire nel cuore del concerto inaugurale della stagione autunnale dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai: intitolata I concerti d’autunno (il via a una manciata di giorni dal cambio di stagione), perché tutte le istituzioni stanno programmando a trimestri, si naviga a vista sperando in allentamenti sempre più consistenti per un ritorno progressivo alla “normalità” anche in teatro – intanto alla Rai di Torino hanno ampliato il palco, sacrificando qualche sedia, per fare musica anche con organici consistenti. Stagione aperta da Daniele Gatti. E l’effetto, dalla prima fila dell’Auditorium Toscanini della Rai di Torino, è potente. Fisico. Perché il direttore ti tira dentro la musica di Ludwig van Beethoven e te la fa (ri)scoprire come se scaturisse, nuova e mai ascoltata, in un qui ed ora che sembra solo per te. La musica della Sinfonia n.4 in si bemolle maggiore e della Sinfonia n.7 in la maggiore (omaggio ai 250 anni della nascita del compositore tedesco) che ti arriva addosso improvvisa, inaspettata, nuova, seppur radicata nella storia. Che è la storia di Beethoven, ma anche la storia della musica che qui si ferma, si rinnova per poi ripartire, ripensandosi dal di dentro.
Radicata sul pentagramma che Gatti non ha sul leggio (che non c’è davanti al podio) perché dirige tutto a memoria, scelta di libertà che fa respirare ancora di più il testo musicale. Che arriva, nella Sinfonia n.4, con una folata di Mahler, inaspettata nel suo suono siderale dell’inizio che lascia poi il posto a una leggerezza spensierata. Gatti e i musicisti dell’Orchestra Rai costruiscono quattro mondi musicali diversi, uno per ogni movimento, quattro racconti di vita che si compenetrano alla perfezione, fedeli al significato del termine sin-fonia, in un affresco di una bellezza da togliere il fiato. Un Beethoven impastato di vita quello della Quarta. Lo senti palpitare. Lo sentono i musicisti che, alla terza chiamata in proscenio del direttore, non si alzano dalle loro sedie per lasciare a lui tutto l’applauso – cosa rara alla fine del concerto, forse unica a metà serata.
Un Beethoven teatrale, dove le dinamiche disegnano lo spazio e le melodie lo popolano di storie, quello della Settima (dentro ci senti il dna della Nona). Una Settima dove i cambi (spesso impercettibili) di tempo chiesti da Gatti ti costringono a cambiare continuamente punto di vista sulla partitura. Per scoprirne angolature inaspettate. Come capita con l’Allegretto che non suona (come sempre accade) come una marcia funebre pesantemente cupa, ma si veste forse ancora più di struggimento nel suo essere, appunto, Allegretto, leggero e aereo, quasi danzato, perché il dolore di una perdita (quelle che la vita ti mette sulla strada per farti crescere, pensi ascoltando questo Beethoven) è ancora più sconvolgente (e più vero) quando non urla, quando la sofferenza si colora di un sorriso riconoscente e sognante. E si fa malinconia.
Un Beethoven, quello di Gatti, ancorato alla vita e dunque rivoluzionario. Perché cosa c’è di più dirompente, in un mondo in cui si è spinti a recitare un copione sul palcoscenico dei social e dei talk show televisivi, di raccontare la vita nella sua disarmante verità? Vita che resta lì nell’aria, nelle note di Beethoven, mentre parte il lungo applauso per Gatti e per l’Orchestra Rai (che anche alla fine non si alza davanti al maestro). Vita che ritrovi poi fuori, per la strada. Fisica. Carnale. Come la musica che te l’ha raccontata.
Nelle foto @PiùLuce Daniele Gatti sul podio dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai