Da Scarlatti a Berio nel nuovo disco del pianista iraniano che racconta il sentimento triste colorandolo di speranza «Un lavoro profetico progettato prima della pandemia»
Per Ramin Bahrami “superati i quarant’anni è tempo di bilanci”. Bilanci di vita e bilanci artistici. Che, in qualche modo, si intrecciano. “Mi sono fermato a riflettere sulla bellezza e insieme sulla difficoltà di essere oggi padre di un bambino di sei anni. E così gli ho scritto una lettera. In musica”. Che è poi il bilancio artistico che il pianista iraniano, classe 1976, emigrato con la famiglia in Europa quando aveva undici mentre il padre era stato incarcerato dal regime, fa nel suo ultimo disco, Malinconia, pubblicato dalla Decca. “Dopo vent’anni dedicati alla musica di Johann Sebastian Bach – racconta Bahrami – ho messo da parte per una volta le sue pagine per un viaggio nella storia della musica esplorando il sentimento della malinconia”.
A Johann Sebastian Bach, però, Ramin Bahrami non può proprio rinunciare: il 27 agosto sarà a Forlì, nell’ambito dell’Emilia Romagna festival, con le Variazioni Goldberg.
“Bach è il compositore più perfetto, più profondo, ogni sua nota è ispirata da Dio e per questo è profondamente umana: nelle sue pagine si trovano tutte le voci, tutte le culture del mondo e la sua musica travalica ogni epoca riuscendo ad essere sempre moderna. Bach c’è anche in Malinocinia perché ho voluto chiudere il mio percorso con la trascrizione fatta da Ferruccio Busoni del corale Ich ruf zu dir, Herr Jesu Christ, Ti invoco, Signore Gesù Cristo”.
La “firma” per la lettera in musica che ha scritto a suo figlio…
“Lavoravo da tempo al progetto di Malinconia, disco registrato a novembre e uscito di recente: non potevo sapere quello che sarebbe successo nel mondo a causa del Covid, ma ora questo lavoro si è rivelato profetico perché tutti, in questi mesi di lockdown, abbiamo vissuto questo sentimento. Che non è, però, solo ripiegamento su se stessi, ma si veste di speranza nel futuro: questo il senso delle pagine che ho scelto per questa lettera a mio figlio. La malinconia, poi, è uno stato creativo dell’artista per custodire la bellezza. Mi sono ispirato a un’incisione di Albrecht Dürer del 1514 e mi sono accorto come il tema della malinconia abbia attraversato tutta la storia dell’arte arrivando sino a Pablo Picasso ed Edvard Munch. E ho voluto fare lo stesso ripercorrendo trecento anni di storia della musica”.
Che percorso propone?
“Si parte da Domenico Scarlatti e si passa alle Mazurke di Fryderyk Chopin, ci sono l’Ungarische melodie di Franz Schubert e l’Adieu au piano di Ludwig van Beethoven, il Valse triste di Jean Sibelius e l’Elegie n.2 di Franz Listz. E poi Edward Grieg, Claude Debussy, il Canto d’autunno di Petr Il’Ic Cajkovskij, Sergej Rachmaninov. E ancora Luciano Berio e il Bach riletto da Busoni. Manca Mozart, un autore che sfugge a qualsiasi schema, non è malinconico e non è allegro. Antonin Dvorak quando faceva lezione portava gli studenti alla finestra e, indicando il sole diceva: quello è Mozart. Il denominatore comune è un sentimento di speranza, da coltivare sempre, un sentimento che è della maturità. Della mia maturità. Ecco perché è anche un disco autobiografico”.
Quali autori disegnano meglio il ritratto di Ramin Bahrami uomo e artista, oggi?
“Rachmaninov e Chopin, i musicisti dell’esilio, che sento vicini al mio percorso di vita. Chopin diviso, anche nella sepoltura, tra la Francia e la Polonia; Rachmaninov il poeta non solo del virtuosismo pianistico, ma delle radici perdute – lasciò la sua terra per la California. Ho voluto anche l’Elegia di Liszt, una pagina che mio padre mi fece ascoltare in Iran quando avevo due anni e mezzo in una rara versione per violino che conservava tra i molti vinili che collezionava”.
Oggi il Medioriente è ancora attraversato da conflitti e violenze: la situazione nel suo paese, l’Iran, le tensioni in Libano, la Libia e Israele.
“Vivo questa situazione con angoscia. Soffro per il Libano che conosco attraverso i racconti sognanti di mia madre, soffro per l’Iran, piegato anche dal coronavirus: i dati che arrivano sui malati li trovo inattendibili, strategia del regime che vuole, con la paura, conservare il potere. Se penso al mio Medioriente mi vengono in mente le dissonanze musicali di Stockhausn e Ives. E soffro. La domanda che mi faccio è: che male hanno fatto queste persone per soffrire così tanto?”.
Riesce a trovare una risposta?
“La cerco nella musica che frequento quotidianamente. L’ho fatto ogni giorno in questo periodo in cui tutti siamo rimasti a casa. Ho suonato e ho terminato il mio nuovo libro, una storia della musica persiana in italiano, dovrebbe intitolarsi Mille e una nota. Ero in Germania e il governo ha fatto tesoro nella gestione dell’emergenza delle misure messe in campo dall’Italia, il paese più colpito dalla pandemia”.
L’Europa, invece, non si è mostrata subito così solidale…
“Mi sono vergognato dell’atteggiamento che parte del Vecchio continente ha avuto nei confronti dell’Italia. L’Olanda e i cosiddetti paesi frugali, ma tutta l’Europa cosa sarebbero senza l’Italia, la terra più ricca di cultura al mondo che ha codificato la musica e la pittura, che ha visto nascere Giotto, Cimabue, Leonardo, Michelangelo e Raffaello? Le leggi dell’economia rischiano di farci dimenticare il bello e le regole giuste se applicate troppo rigidamente possono renderci aridi: è giusto usare il plexiglas per non prendere il virus, ma in questo distanziamento, alzando questi muri trasparenti stiamo attenti a non far ammalare i nostri sentimenti”.
Come è stato tornare a fare musica dal vivo?
“Una gioia immensa, l’inizio di una riconquista, che sarà certo lenta e progressiva, di qualcosa che avevamo e che, forse, davamo troppo per scontato. Pur suonando ogni giorno a casa sentivo la tristezza di non avere ascoltatori: senza pubblico noi artisti non esistiamo, il nostro lavoro è efficace se sappiamo trasmettere le emozioni scritte sul pentagramma a chi ascolta. Non si può pensare che la virtualità possa prendere il posto della musica dal vivo, lo streaming è utilissimo per far arrivare la musica a chi non ha possibilità di andare a teatro, in qualsiasi parte del mondo, ma non può sostituire la bellezza dell’ascolto dal vivo. Per questo occorre tornare al più presto, in sicurezza, alla normalità: il virus prima o poi sparirà, ma l’uomo rimarrà e dunque dobbiamo lavorare per far sì che la speranza non muoia, perché siamo nati per la gioia”.
Nella foto @Giuseppe Melandri il pianista Ramin Bahrami
Intervista pubblicata su Avvenire del 26 agosto 2020