L’Impertatore e la Quinta per il festival Settenovecento Protagonisti giovani musicisti, al piano Daniele Lasta
A Rovereto – lo avverti, abbracciato dal verde delle montagne e avvolto nel silenzio del tramonto – respiri la pace. Quella che ogni giorno non si stancano di proclamare, discreti, ma incessanti, i cento rintocchi di Maria Dolens che tutte le sere fanno risuonare il bronzo dei cannoni della Prima guerra mondiale, fusi in una campana, la Campana dei caduti, per dire: Mai più la guerra. Quella pace che Ludwig van Beethoven ha inseguito e raccontato in musica. Nella Nona, certo, con quell’auspicio di una fratellanza universale. Ma, in controluce, in ogni sua nota, basta mettersi in ascolto. Capita, questo, a Rovereto. Grazie ad un gruppo di giovani musicisti. Giovani che, al di là di una facile retorica, sono sempre i più idealisti, quelli che la pace la cercano e provano a costruirla abbattendo muri di divisione e discriminazione con una semplicità spesso disarmante.
Eccoli sul palco del Teatro Zandoinai. Jeans e sneakers, anche se qualcuno sotto la maglietta nera con la scritta colorata Settenovecento ha messo i pantaloni eleganti dell’abito. Per dare un tocco di solennità alla serata. Perché il concerto Beethoven250 che domenica 23 agosto ha chiuso l’edizione 2020 del festival Settenovecento di Rovereto era l’appuntamento cuore della rassegna riprogrammata a fine agosto (la quarta edizione era costruita, come tradizione, attorno alla Festa della musica del 21 giugno) causa Covid. Ripensata e adattata, ma coraggiosamente non cancellata dagli organizzatori (la Filarmonica di Rovereto, il Centro internazionale di studi Zandonai e il Festival Mozart Wam) che hanno azzeccato la formula del fine settimana lungo (da venerdì a domenica) con appuntamenti tutti ad ingresso libero in diversi luoghi della città trentina (chiese, giardini, cortili, il Mart), ma anche sul territorio (da Ala a Brentonico unendo cultura, turismo ed enogastronomia): l’apertura con l’Orchestra di piazza Vittorio per una serata sul dialogo interreligioso, i concerti della buona notte e gli appuntamenti al teatro Zandonai (269 i posti disponibili per rispettare il distanziamento, sempre tutti occupati) con la Filarmonica Settenovecento.
Jeans e sneakers per i ragazzi dell’orchestra che riunisce giovani musicisti del territorio (arrivano da Bolzano e Trento, da Verona e Brescia) e li affianca a professionisti già in carriera – Filippo Lama, docente a Brescia, come primo violino, Klaus Manfrini, viola in diverse formazioni da camera e orchestrali, Marco Dell’Acqua, violoncello dell’Orchestra Rai, Andrea Bressan, fagotto della Budapest festival orchestra. Informali anche loro.
Pantaloni eleganti, invece, per Daniele Lasta, pianista che gioca (suona) in casa (è nato nel 1999 proprio a Rovereto), e per Marco Alibrando, direttore messinese, classe 1987, che ha messo sul leggio un “programmone” classico, tutto dedicato a Ludwig van Beethoven con due pagine popolari e conosciute come il Concerto n.5 per pianoforte e orchestra Imperatore e la Quinta Sinfonia, quella con l’attacco più famoso della storia della musica classica (che non riesci a non canticchiare quando parte). Giusto (e doveroso) omaggio per i duecentocinquant’anni dalla nascita del compositore, certo. Ma anche dichiarazione di intenti per mettere le basi, qui a pochi chilometri dal confine con l’Austria (e dunque con l’Europa che non si è mostrata compatta e soldale in questi mesi di pandemia) di una nuova pace (in musica) possibile e da perseguire con caparbietà.
Scommessa impegnativa, sicuramente, sul fronte tecnico e su quello interpretativo anche perché l’Imperatore e la Quinta chi sta in platea spesso pensa di conoscere le due pagine come le proprie tasche. Scommessa vinta quella di Alibranbdo e di Settenovecento. Grazie all’entusiasmo dei ragazzi, concentratissimi, impeccabili (la compattezza degli archi, l’intonazione dei corni, la leggerezza luminosa dei fiati raccontano una padronanza che non sempre si ritrova nelle sale da concerto), capaci di respirare insieme seguendo il gesto di Alibrando che tiene alla perfezione le fila del discorso musicale: non c’è retorica (né un’ormai sentita e risentita filologia) nel suo Beethoven che sorprende per i tempi (e i metronomi), per la tensione narrativa, per la robustezza di un suono che, dove il sentimento lo richiede, si fa trasparente e sognante. Come nell’Andante della Quinta o nell’Adagio dell’Imperatore, pagina che Lasta (l’emozione all’inizio si percepisce, ed è giusto così) affronta con una maturità tecnica e una capacità di scavo interpretativo notevoli (si sente anche nel bis con Chopin e la sua più celebre Polacca).
I ragazzi della Filarmonica Settenovecento applaudono Lasta, lui poi, smessi i pantaloni eleganti e infilati un paio di bermida, li ascolta nella Quinta che è tutta in crescendo, suonata quasi senza prendere fiato dai primi accordi secchi e sferzanti, sino agli ultimi, sontuosi e colmi di una bellezza che Beethoven cattura e amplifica. E finita la musica, mentre il pubblico esce ordinato, gli immancabili selfie sul palco, magari a gruppi di strumenti (perché l’esperienza della Filarmonica Settenovecento sa di amicizia, lo vedi nei sorrisi oltre che sentirlo nel suono), da postare subito sui social. Magari con un hastag ad hoc: #beethoven #rovereto #pace.
Articolo pubblicato in parte su Avvenire del 25 agosto 2019