Il direttore d’orchestra racconta la sua quarantena in casa tra studio, gialli in tv, libri e sport sulla cyclette in salotto «Nella musica conforto e fiducia per guardare al futuro»
«Noi artisti, più di altri, siamo cosmopoliti e nomadi. Ed in questo nostro essere sradicati le nostre radici sono il lavoro. Ora, in un periodo in cui il lavoro non c’è e dato che non possiamo fare smart working, siamo totalmente sradicati». Sradicato, quasi senza una terra dove affondare le proprie radici. Si sente così Michele Mariotti in questa Pasqua 2020, in quarantena «come tutti per rispettare le regole e non vanificare gli sforzi fatti sinora». Il direttore d’orchestra pesarese è a Bologna. «Qui ho casa e rientrato da Monaco, dove dopo la prima, hanno cancellato le repliche de I masnadieri di Verdi, mi sono fermato qui, lontano dai miei cari, da mio figlio che è in Toscana, da mio padre e i miei fratelli che sono a Pesaro».
Come vivi, Michele Mariotti, questo periodo, da artista costretto a uno stop forzato e da uomo che si interroga sul presente?
«Un periodo strano. Una Pasqua strana. Ognuno a casa propria, accanto a chi vive queste settimane di quarantena insieme a noi. Ma con un compito importante, rispettare le regole con coscienza, senza uscire per non vanificare quanto fatto in queste settimane, con il rischio di dover ripartire da capo. Così Pasqua potrà davvero essere un momento di rinascita e di ripartenza».
Come sono le tue giornate?
«Come quelle di tutti, abbastanza uguali tra loro. Mi sono dato un ordine: per tre ore al giorno studio le opere e le sinfonie che ho in programma di dirigere una volta che l’emergenza sarà completamente passata. Leggo molto. E faccio un’ora di cyclette perché le bici da corsa e le mountain bike le ho nella casa di Pesaro, dove sono nato. Da qualche anno mi sono appassionato ai pedali: messi da parte tennis e basket, giro per le colline pesaresi e le piste ciclabili che costeggiano il mare nelle Marche. Ora la mia ciclabile è in salotto».
Proprio Pesaro all’inizio dell’epidemia è stato uno dei focolai del coronavirus, con molti casi e diverse vittime.
«A Pesaro a febbraio ci sono state le Final eight di basket che hanno portato molta gente e sicuramente hanno favorito la diffusione del virus. La situazione all’inizio era molto seria. Me lo raccontavano mio padre, che è medico, e i miei fratelli che vivono lì con le loro famiglie. Io per lavoro da gennaio ero all’estero, Valencia, Amsterdam e Monaco».
Vivevi con apprensione le notizie che arrivavano dall’Italia?
«Inutile negarlo, l’apprensione c’era, ma dall’estero non si aveva la percezione di quello che stava capitando: si leggevano le notizie sui giornali, ma sembravano quasi esagerate. Poi, rientrando, ho toccato con mano la sofferenza dell’Italia. La preoccupazione era per mio padre e per mio figlio che ha dieci anni: per lui, fragile, ogni cambiamento è delicato. Per fortuna sta bene, certo vive le difficoltà di tutti i bambini di stare in casa così a lungo».
Riesci a fare musica in questo periodo, a trovare nella musica una speranza?
«Non c’è stato giorno da quando sono a casa in cui non abbia studiato e fatto musica. Nelle note, nelle pagine che approfondisco trovo conforto, uno stimolo per andare avanti, un’emozione. Certo, il conforto e il motivo per guardare con speranza al futuro ognuno deve trovarli dentro di sé, nella musica che ascolta, nelle pagine che legge. Ma la società e la politica devono darci ragioni per pensare alla ripartenza con ottimismo. Il coronavirus ha portato alla luce quello che già era un nervo scoperto, il sostegno alla cultura. Dobbiamo capire che uno dei motori della rinascita e della ripartenza dopo l’epidemia deve essere inevitabilmente la cultura, specie in Italia, paese ricco di cultura e che non ha mai smesso di produrla. Ora lo Stato deve legittimare il grande potere del teatro che ha un valore sociale e civile. Dopo la cura del fisico dobbiamo anche pensare alla cura dello spirito, provato in questo tempo di isolamento ed emergenza. Non voglio sembrare polemico, ma perché, accanto all’apertura dei tabaccai, non si è pensato da subito di lasciare aperte le librerie? Lo spirito ha bisogno di nutrirsi».
Per farlo attraverso la musica che pagine suggeriresti di ascoltare in questo periodo?
«Direi Verdi e Mozart, Beethoven e Mahler che sono gli autori che studio in questo periodo. Ma penso sia importante ascoltare la musica, qualsiasi tipo di musica, quella che ciascuno ama cercando di cogliere e fare proprio il messaggio che una pagina di musica classica o un brano rock ci vuole trasmettere. Io cerco di farlo e per rilassarmi non ascolto mai musica classica, non riuscirei a sentire una sinfonia senza aprire la partitura e dunque diventerebbe un lavoro. Mi piacciono i cantautori italiani come Conte, Capossela, De Gregori, De André, Dalla, i nostri grandi poeti. Ma potrei dire i Beatles, i Queen, gli Oasis. Mi piace ascoltare musica senza scelta, così come viene».
Letture? Serie tv?
«In tv guardo molto i gialli, Hitchcock, Agatha Christie, classici come Il tenente Colombo, oppure The mentalist. Sui canali sportivi, invece, rivedo i miti del tennis di quando ero ragazzo: guardo e riguardo le partite di Borg, Becker, McEnroe. Leggo molto. Quest’anno ho già letto cinque libri di Mark Levi, romanzi d’amore, ma scritti con grande senso dell’umorismo, mai patetici e sempre al confine tra assurdo e realtà. Che sembra poi essere la cifra del periodo che stiamo vivendo».
Che impegni ti sono saltati a causa della pandemia?
«Il debutto sinfonico a Santa Cecilia a Roma e il doppio debutto alla Staatsoper di Vienna con Guillaume Tell di Rossini e una nuova produzione di Un ballo in maschera di Verdi. Dispiace, ma ora è giusto mettere al primo posto la salute. La speranza è di recuperare, almeno in parte, ciò che è saltato. Lo spettacolo è stato il primo a chiudere i battenti e sarà l’ultimo a riaprire perché è un evento per un numero consistente di persone concentrate in un luogo chiuso. Ridurre il pubblico è la cosa meno problematica e più facilmente risolvibile: un teatro che ha mille posti apre per 450 persone debitamente distanziate. Il problema è in orchestra, come si fanno a mantenere le distanze? Non si possono mettere le mascherine ai fiati. E poi ci sono le prove, i laboratori di scenografia che devono iniziare a lavorare molto prima che si vada in scena: non può essere un on/off automatico dall’oggi al domani, occorrerà gradualità».
Come immagini la ripartenza?
«Vivremo una nuova vita, diversa, sicuramente. Almeno sino a che un vaccino non ci metterà tutti al sicuro. Anche noi artisti dobbiamo capire come cambierà il nostro lavoro. Occorre che si torni presto ad una routine seppur strampalata e sghemba come è quella di noi artisti nomadi, in giro per il mondo. Non vedo l’ora di tornare a questa vita, sradicata, ma radicata nel lavoro. La mia vita».
Nella foto @PiùLuce il direttore d’orchestra Michele Mariotti