Il drammatico e toccante racconto del direttore bresciano che vive in una delle zone più colpite dal coronavirus «Nemmeno nelle note per ora trovo un conforto al dolore»
«Nemmeno nella musica, che pure è la mia vita, riesco a trovare un conforto». Riccardo Frizza comunque ci prova, perché sul pianoforte a casa ha le partiture di Belisario e di Marino Faliero «le dirigerò a novembre al Donizetti opera festival di Bergamo, ma non riesco a studiare più di due pagine al giorno, tento, mi ci metto, ma non ho la testa, il pensiero di quello che mi capita intorno, la preoccupazione per i miei familiari e i miei amici ha la meglio». Il direttore d’orchestra, classe 1971, guida musicale del Donizetti opera di Bergamo, abita in un paese alle porte di Brescia, nel cuore di uno dei focolai italiani del coronavirus. «La situazione qui è drammatica, ogni giorno notizie di morti – dice con una voce più mesta del solito, a tratti incrinata dall’emozione, ma non rassegnata –. Il silenzio è rotto solo dalle sirene delle ambulanze. Sto vivendo con grande preoccupazione questi giorni, tanto più che in famiglia tutti abbiamo avuto la febbre».
Come state?
«Ora bene, la febbre è passata da una settimana. Ci siamo ammalti tutti io, le mie sorelle, mia moglie, mia madre, mio cognato. Febbre, raffreddore, ma nessuna certezza di aver contratto il coronavirus perché nessuno di noi è stato sottoposto a tampone. Sono stati giorni di grande timore perché di fronte ai sintomi non sapevamo se fosse l’influenza o il coronavirus. Ora stiamo bene, ma comunque non dormo tranquillo perché le ambulanze continuano a rompere il silenzio con il suono delle sirene mentre la conta dei morti continua drammaticamente a salire».
Un dolore che ha toccato anche te?
«In una sola giornata ho avuto notizia della morte di ben cinque persone nella cerchia delle mie conoscenze, non mi era mai capitato prima. Fino a che non ci sei dentro, sino a che il dolore non bussa alla tua porta e non vivi da vicino questa situazione drammatica pensi che possa capitare solo ad altri. Vivo in un paese di poco più di 10mila abitanti, il dolore dei vicini diventa inevitabilmente il tuo. Un amico fraterno ha perso la mamma e non ha potuto nemmeno vederla o accompagnare il feretro al cimitero perché lui e i fratelli sono in quarantena. Il distacco è già pesante in situazioni ordinarie ed è drammatico, ma in questo caso si fa ancora più doloroso e duro da accettare».
Colpisce il fatto che tu non riesca a rifugiarti e trovare conforto nella musica, spesso si dice che l’arte può aiutare ad alleviare il dolore.
«In questo momento mi suona come una frase fatta e lontana da quello che sto vivendo. Il mio pensiero è pieno di contrasti perché vorrei buttarmi sulla musica, ma non ci riesco perché le preoccupazioni per la mia famiglia e i miei amici sono più forti. È vero, si dice che l’arte possa essere un sollievo, un ristoro per l’anima: giustissimo, ma per me ora non è proprio così, non riesco a rifugiarmi nella musica, forse non sono ancora pronto».
Cosa ti dà speranza?
«Vedere chi ce l’ha fatta. Pensare a quello che farò terminata l’emergenza. E vedere mia figlia Sofia. Lei è già abituata a non andare a scuola perché segue me e mia moglie Davinia Rodriguez, soprano, nel nostro lavoro e nei nostri spostamenti studiando con noi. Certo, le manca il contatto fisico, il poter giocare con gli amici. Lei, come tutti i bambini, comprende bene, la difficoltà del momento insieme stiamo cercando di affrontarla, di capirla, perché è una cosa nuova per tutti».
Voi artisti dovete fare i conti anche con l’incertezza per quel che riguarda il lavoro: teatri chiusi, all’orizzonte non ancora una data certa di riapertura. Tu sei direttore d’orchestra, tua moglie Davinia cantante, come vivete questo momento?
«A me sono saltate le recite di Lucrezia Borgia a Piacenza e Ravenna, due concerti a Colonia e Il barbiere di Siviglia a Dallas. A giugno dovrei avere un Roberto Devereux alla Fenice di Venezia, spero si riesca a fare, altrimenti i miei prossimi impegni saranno a settembre, il che vuol dire sette mesi senza lavorare. Davinia ha avuto diversi impegni cancellati e ad oggi il primo appuntamento confermato è quello in autunno con il Festival Verdi di Parma. Tanti precari dello spettacolo sono in difficoltà perché non si vive di soli applausi, questo lo dico non per smontare la poesia dell’arte, ma per restare con i piedi per terra. Anche i politici dovrebbero capirlo».
Tua moglie Davinia è spagnola di Las Palmas. Come vivono lì questa situazione?
«Devo dire che siamo stati delusi dall’atteggiamento di molti amici spagnoli che quando da qui iniziavano i contagi e le morti e noi cercavamo di spiegare la situazione ci tacciavano di essere eccessivamente allarmisti. Non siamo riusciti a convincerli a mettere in atto comportamenti adeguati prima che il loro governo adottasse le misure restrittive. Ora hanno capito. Non siamo riusciti forse a spiegare una tragedia che è troppo grande e inimmaginabile a priori».
La tua casa musicale è Bergamo, un’altra zona piegata dai contagi e dalle vittime del coronavirus.
«Lì la situazione è ancora più drammatica che nel bresciano, morti che non riescono ad essere seppelliti, famiglie che perdono i loro cari senza nemmeno poterli salutare un’ultima volta. Noi del Donizetti opera festival avevamo in programma una riunione proprio nei giorni in cui si pensava di far diventare la bergamasca zona rossa, ci siamo visti in videoconferenza con l’incertezza del momento: sino a che non si vedrà un orizzonte, una prospettiva su quando usciremo da questa situazione qualsiasi progetto è pieno di incognite. Certo, noi continuiamo a lavorare, a programmare sperando di poter alzare il sipario come previsto a novembre. Ma un Festival, così come ogni altro evento culturale, ha un costo: noi abbiamo sostegni pubblici e oggi tutti gli sforzi per Bergamo devono giustamente essere concentrati sulla sanità».
Dirigerai Belisario e Marino Faliero di Donizetti, quelle partiture che oggi hai sul pianoforte. Trovi un aggancio, un segno in queste pagine che possa parlare ai nostri tempi?
«Questi, come tutti i melodrammi dell’Ottocento, ci dicono che la vita è fragile e va preservata e tutelata, questa forse la lezione per questi nostri tempi. Dopo che tuto sarà passato occorrerà fare una riflessione a mente fredda per riordinare le idee e capire tutto quello che ci è capitato. Anche attraverso l’arte».