Dopo il debutto dell’opera teatro chiuso per il coronavirus Applausi per la fuoriclasse Rosa Feola nei panni di Fiorilla e per Alex Esposito, Edgardo Rocha e Giulio Mastrototaro Dirige Diego Fasolis, regia di tradizione di Roberto Andò
Questa volta nemmeno la cultura può essere un antidoto. Antidoto a certa (così verrebbe da definirla) stupidità che, accanto alle sacrosante misure di prevenzione imposte dalle autorità, sembra aver preso molti che svaligiano gli scaffali di supermercati e farmacie. Perché l’allarme coronavirus ha fatto (giustamente, meglio prevenire ed eccedere in precauzioni) chiudere teatri, musei, luoghi pubblici dove la cultura si pone ancora come presidio di civiltà. Civiltà che si alimenta, inevitabilmente, del messaggio (universale) dell’arte. Che, per il momento, tace. Perché, per dar corso alle disposizioni della Regione Lombardia, anche il Teatro alla Scala ha sospeso – per ora sino al 1 marzo – tutti gli spettacoli. Così, archiviato prima del tempo il verdiano Trovatore, incrociando le dita sulla prima della Salome di Strauss in programma l’8 marzo (dirige Riccardo Chailly, in regia Damiano Michieletto), si attende di poter ripartire da Il turco in Italia.
L’opera di Gioachino Rossini ha debuttato poche ore prima del decreto che ha sancito la chiusura dei teatri. Lo ha fatto in pieno clima da allarme coronavirus. Ma le strette di mano e gli abbracci non mancavano nel foyer. Prima e unica (per ora) recita del nuovo allestimento dell’opera buffa che Rossini scrive nel 1814 proprio per la Scala: il compositore, e il librettista Felice Romani, definiscono il loro Turco un «dramma buffo». In effetti c’è poca comicità, non si ride a crepapelle nel racconto (a tratti noiosamente) metateatrale di un poeta, Prosdocimo, che deve trovare l’argomento per un dramma e si imbatte nelle vicende di Don Geronio e dalla moglie Fiorilla che corteggia (ed è corteggiata) del turco Selim sbarcato in Italia dove trova una vecchia fiamma, la zingara Zaida. Sorriso amaro, piuttosto. Comicità della situazione, comicità del momento, comicità della musica nell’opera di Rossini che la regia di Roberto Andò raggela in una sorta di esperimento di laboratorio (una società da analizzare al microscopio, tanto per restare in tema di virus) e rende quasi un dramma borghese.
La partitura, pur tra pagine sublimi e ispirate (e i richiami al Rossini del Barbiere non mancano), sconta una discontinuità e una certa fatica drammaturgica: occorre un ritmo serrato, un’idea di regia forte e sempre in attacco per renderla avvincente, per farla diventare teatro (l’opera non è solo musica, èinsieme musica, canto e azione). Perché non basta il meccanismo metateatrale (la vicenda è la stessa di tanti altri intrecci, lui, lei, l’atro e l’altra) che Andò cavalca e sul quale insiste tenendo (quasi) sempre in scena, anche quando il libretto non lo prevede, Prosdocimo, burattinaio che muove i fili dell’azione, regista occulto che vive nel teatro (esce dai sotterranei, si aggira tra proscenio e platea) e di teatro (melodrammatico e iperattivo): la scena essenziale di Gianni Carluccio (nel video di Luca Scarzella le onde del mare e la nave di Selim che ha tanto del wagneriano Vascello fantasma), nel suo pavimento ligneo in pendenza nel quale si aprono botole (i personaggi escono da lì, si materializzano tra le assi del palcoscenico richiamati dalla musica) evoca il gioco del teatro di certe regie di Giorgio Strehler.
Impatto estetico (con le case di Napoli che vanno su e giù ai lati della scena e gli interni surrealisti e sghembi, con i mobili sospesi a mezz’aria della casa di Don Geronio) abbastanza efficace (costumi tra un tardo Settecento e un inizio Ottocento napoletano di Nanà Cecchi), ma nulla di più, nessun tentativo di andare oltre una messinscena prudente e rassicurante (i cantanti in platea con le luci accese, sempre efficaci, si sono visti e rivisti), solo una regia che apparecchia le vicende governando i movimenti dei personaggi (coro schierato, finali in proscenio) nel solco di una consolidata tradizione.
Tradizione dalla quale, dal podio, si discosta (ed era prevedibile dopo il Barbiere alla «famolo strano» di un anno e mezzo fa a Lugano) Diego Fasolis. E non è sempre detto che funzioni. Perché i tempi che il direttore sceglie di staccare sono allegramente originali. E se hanno il merito di tenere viva l’attenzione anche solo per capire «l’effetto che fa», non sempre risultano drammaturgicamente azzeccati. Il suono (pur bello e tornito) è corposo, a tratti pesante (lo si capisce sin dalla Sinfonia che sarà un Turco muscolare) con il rischio di fagocitare le voci.
Il cast in campo, fortunatamente, è di professionisti solidi (in alcuni casi di veri e propri fuoriclasse) che sanno tenere dritto il timone e restituire stile e gusto rossiniani con garbo e ironia. Stravince la Fiorilla di Rosa Feola, fuoriclasse del (bel)canto, soprano che sa stupire e sorprendere regalando ogni volta un’interpretazione che lascia il segno: tecnica solidissima, gusto raffinatissimo si uniscono a una voce pastosa, affascinate, luminosamente malinconica che sa con poche pennellate delineare un personaggio a tutto tondo, trascolorando dalla civetteria femminile (la seduzione di Selim, i battibecchi con Don Geronio) a una confusa e desolata disperazione (la grande scena del secondo atto quando Fiorilla viene scacciata dal marito) che toccano e chiamano un lunghissimo applauso a scena aperta.
Alex Esposito disegna un Selim nobile e sprezzante, distaccato, quasi disincantato nell’assistere alla battaglia di dame per la sua mano. Il basso sfodera il colore e il fascino vocale di sempre (fa colpo il pianissimo con il quale attacca la sua aria di sortita Bella Italia alfin ti miro), ma appare (scelte di regia?) quasi trattenuto nella sua carismatica presenza scenica. Misura scenica e precisione vocale anche per Giulio Mastrototaro che è un Don Geronio presente a se stesso, non il solito marito becco, battuto e contento. Edgardo Rocha ha voce luminosa e squillante per disegnare un convincente Narciso (ma alle uscite finali l’applausometro per lui si abbassa inspiegabilmente), Mattia Olivieri è l’onnipresente e iperattivo Prosdocimo. Manuel Amati apre la bocca e ti viene da dire «ma questo è Florez»: voce bella e timbrata, leggerezza sognante per il tenore assai (giustamente) applaudito nell’unica (impegnativa) aria che Rossini riserva ad Albazar. Laura Verrecchiua regala a Zaida il suo timbro screziato color del rame.
Tutti in quarantena, per ora, in attesa che la Scala – e il mondo – riparta dopo la “follia” (Fiorilla, d’’altronde, si presenta in scena cantando il suo «Non si dà follia maggiore») di questi giorni di chiuso per coronavirus.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Il turco in Italia