Una rilettura pop per L’italiana in Algeri di VoceallOpera dove Mustafà assomiglia al tycoon e Isabella alla Fallaci Ritmo rossiniano doc nella direzione di Marco Alibrando
Mustafà in versione Trump ancora mancava. Il Mustafà dell’Italiana in Algeri di Gioachino Rossini. Fatta e rifatta in tutte le salse, portata al tempo della crisi mediorientale, collocata sullo sfondo della corsa al petrolio – da Ugo Gregoretti a Ken Russel a Davide Livermore si sono viste le più originali e stravaganti letture. Riletture autorizzate da quella follia organizzata che è la partitura che il musicista di Pesaro scrisse per Venezia nel 1813 a ventun’anni. Ideale per il tempo di carnevale in cui le regole sociali vengono sovvertite e l’irrazionalità prende il potere. Ci sono genio e follia nella musica vorticosa dell’Italiana. E c’è, come sempre in Rossini, un sorriso che sa essere anche amaro perché guarda con disincanto alla realtà. Realtà dalla quale era partito Angelo Anelli per il suo libretto (dove non manca un riferimento massonico nel modo in cui è raccontato il rito di affiliazione ai Pappataci di Mustafà), il rapimento nel 1805 da parte dei corsari di Antonietta Frapolli, signora milanese portata nell’harem del Bey di Algeri e poi ritornata in Italia.
Realtà, o storia, che nell’allestimento di Gianmaria Aliverta per la sua associazione VoceAllOpera allo SpazioTeatro89 di Milano va in corto circuito. Perché l’Italiana Isabella che si presenta nell’harem di un Mustafà con il ciuffo biondo alla Trump (pare sia il suo idolo, il modello di politico cui si ispira) ha caschetto, occhiali, foulard, sigaretta e macchina da scrivere di Oriana Fallaci. Arrivata ad Algeri (insieme al segretario ipocondriaco Taddeo) non perché rapita dai pirati, ma per una delle sue interviste ai grandi della terra da Arafat a Gheddafi. Parte da qui la lettura di Aliverta che nella dimensione di VoceAllOpera, laboratorio che scopre talenti realizzando spettacolo low cost, ritrova sempre la sua dimensione ideale, libera da vincoli e convenzioni dei palcoscenici lirici. La fantasia si scatena e così la Fallaci e Trump possono trovarsi (la giornalista de La rabbia e l’orgoglio è morta nel 2006 quando l’ascesa politica del magnate era ancora un miraggio) in un’Algeri da fantasia. Una suggestione che dura il tempo dell’aria di Isabella Cruda sorte per poi lasciare il posto alla follia organizzata dell’allestimento di Aliverta che asseconda la musica di Rossini, la cavalca e la porta a eccessi comici impensati.
Tutto avviene nell’harem di Mustafà, dove si incrociano personaggi stravaganti, donne in burqa, uomini in mimetica, ragazzi vestiti da odalisca: un cubo che si apre a evocare un harem con archi rosa e azzurri (gender rispettato) la scena essenziale disegnata da Danilo Coppola immersa in un orizzonte nero su cui si stagliano i colorati costumi di Sara Marcucci – tanti burqa camouflage, flou e a quadrettoni da tovaglia di osteria. Tutto è pop, tutto è in stile camp, un po’ parata del pride (come accadeva già in Cenerentola, sempre Rossini, che Aliverta aveva trasportato nel mondo delle sfilate di moda), un po’ trash italiano. Ma non solo. Eccesso al potere con siparietti da comiche del cinema muto che fanno ridere di gusto il pubblico. E il Bey in versione tycoon, è anche un po’ un personaggio del mondo dello spettacolo, verrebbe da dire della rivista a vederlo nel suo doppiopetto rosso – la Fallaci, d’altra parte, intervistò anche Federico Fellini e Totò quindi tutto ci può stare.
Così, in una cornice tra il musical e il fumetto, ci stanno i coristi (maschi) in burqa, ci sta la Isabella/Fallaci che smette i panni di giornalista per indossare la mimetica, ci sta Lindoro in tuta arancione da prigioniero tenuto in catene da Mustafà. E ci sta un Taddeo (molto) gayfriendly che prima si disinfetta perennemente con salviettine umidificate e amuchina (l’allarme coronavirus non era ancora scoppiato così drammaticamente) per poi calarsi perfettamente nel mood algerino ballando la lap dance con movimenti sinuosi (Alfonso Ciulla oltre che lezioni di canto ha fatto anche scuola di danza) da fare invidia a qualsiasi professionista delle acrobazie al palo o ai twerk dell’Elettra Lamborghini di turno.
Ci sta tutto. Ce lo fa stare Rossini nella sua musica dove ci sono il comico e il sentimentale, il patetico e il drammatico. Caratteri che il direttore Marco Alibrando coglie bene e sbalza nitidi nella sua lettura che sa essere serrata e vorticosa, ma anche lieve e nostalgica con colori che sfumano in dissolvenza l’uno nell’altro. Ne esce un’Italiana energica, ma mai eccessiva e sopra le righe, un racconto dove la musica fa nascere il sorriso e, a tratti, anche la lacrima malinconica. I “tic” rossiniani (crescendo, sillabato, virtuosismi funambolici) ci sono tutti, governati a meraviglia da Alibrando che mette in campo sempre gusto e intelligenza. Il direttore ha braccio saldo per tenere insieme un’orchestra (messa a lato della scena che è centrale nella sala, con il pubblico in tribuna) che unisce (poche prove d’insieme, ma suono e intesa ci sono) la Civica orchestra di fiati di Milano e l’ensemble di archi di VoceAllOpera e per riprendere, riportandoli nei ranghi, i cantanti (specie il coro) nelle loro corse in avanti, trascinati anche dal ritmo incalzante della regia.
Interpreti in carriera e giovani scoperti alle audizioni. Isabella ha il bel colore di mezzosoprano e la disciplina di Sara Rocchi, Taddeo la spigliatezza scenica e la precisione musicale di Alfonso Ciulla. Interpreti abituati al palcoscenico, come Lorenzo Barbieri che, con la sua voce da basso-baritono (a tratti chiara e sgranata, ma capace di farsi scura e bruna) è uno stralunato Mustafà dal ciuffo biondo, personaggio attorno al quale ruota tutta la comicità dell’Italiana, prototipo dell’uomo che per le sue ambizioni non teme di rendersi ridicolo. Bekir Serbest è sicuramente la voce più interessante in campo, tenore limpido dallo squillo cristallino e penetrante (ma senza mai farsi fastidiosamente tagliente): peccato un’indisposizione abbia azzoppato il suo Lindoro costringendolo a tagliare il Languir per una bella. Uscite dalle audizioni di VoceAllOpera Kaori Yamada e Marta Di Stefano sono Elvira e Zulma, generose nel canto e nell’interpretazione. Da segnare, poi, il nome di Lorenzo Liberali che è un compassato e divertito Haly con il suo viso giovane e la voce che sta acquistando corpo e (bel) colore.
Nelle foto @Gianpaolo Parodi L’italina in Algeri