Trionfo del direttore napoletano che è tornato a Milano portando Wagner, Hindemith e Prokof’ev con la Chicago. L’affetto immutato del pubblico e dei lavoratori del teatro. «Un cammino mai interrotto. Un’opera? Valuto proposte»
Riccardo Muti lo ha detto a parole. «Quando sono entrato sul palco la sensazione è stata quella di continuare un cammino mai interrotto. Quindici anni di lontananza che si sono volatilizzati perché è forte il ricordo di ogni giorni dei quasi vent’anni passati in questo teatro dal 1986 al 2005. Anni di cui non rinnego nemmeno un giorno, neppure un istante». Il pubblico che mercoledì 22 ha affollato il Teatro alla Scala per il suo ritorno alla guida della Chicago Symphony orchestra lo ha detto con un applauso che sembrava non voler finire.
Un «Bentornato a casa, maestro» gridato dal loggione al quale Muti risponde con un sorriso e un gesto della mano. Veloce. Quasi per non tradire un’emozione che, indubbiamente c’era. Che c’è. Perché rispetto al 2005 – quando l’indomani dai giorni difficili che portarono al suo addio al teatro il direttore, ferito, diceva «Mai più alla Scala» – Muti è cambiato: ha stemperato il suo carattere severo, «anche se nella vita non sono serioso come appaio sul podio, incutendo timore a qualcuno» ama dire, sorridendo, lui. D’accordo, Muti era già tornato alla Scala, dopo lo strappo del 2005, nel 2017 proprio con la Chicago Symphony (e prima, nel 2016 per una mostra per i suoi 75 anni). Ma l’atmosfera questa volta era diversa, più rilassata, meno formale.
Muti – lo ha dimostrato con il passo deciso con il quale è salito sul palco e si è diretto verso il podio (che la Chicago si porta in tournée) – ha il piglio di un tempo, la passione di sempre, il rigore che lo contraddistingue nel fare musica e soprattutto nel dare il giusto peso (e il giusto ruolo) alle cose della vita. Ma il suo sguardo, che va dritto negli occhi di chi lo osserva, ha uno spessore diverso, quello di chi ha fatto pace con la vita e, forse, ha buttato alle spalle (perdonato?) i torti subiti. «Mi hanno commosso gli orchestrali, i coristi, le maschere, i tecnici, persino gli addetti alla portineria con i quali ho collaborato nei miei anni scaligeri che oggi mi hanno accolto facendomi sentire il loro abbraccio, facendomi sentire di nuovo a casa» racconta Muti, avvertendo che «non è retorica».
Lo dice a fine serata, in un foyer quasi deserto: le maschere chiudono le porte del teatro, il pubblico è già uscito dopo essersi messo pazientemente in fila (facce di ieri che ti riportano indietro di vent’anni, seppure segnate dal tempo) per un autografo e una foto, dal terzo piano arriva il rumore delle stoviglie perché lo sponsor della serata offre una cena. Ma Muti non va. Si ferma a chiacchierare con gli amici di un tempo, con collaboratori di ieri che ancora oggi sono la colonna portante della Scala. E anche con i giornalisti. «Scrivete che sono io che ho deciso quando far finire gli applausi. Mica sono come quei direttori che salutano anche l’ultimo corno pur di far salire il cronometro dell’applausometro» sorride il maestro, libero (da sempre) di dire tutto ciò che pensa.
Lo ha fatto anche dal podio nelle tappe italiane della tournée europea della Chicago symphony. Tre tappe nelle città e nei teatri che hanno segnato la carriera del maestro. Il San Carlo di Napoli, la città natale di Muti dove il direttore, prima di fare musica ha incontrato i ragazzi del carcere di Nisida. «I nostri governanti devono sostenere la cultura, i media devono darle più importanza. Viviamo un momento difficile a livello mondiale, ci salverà solo la bellezza con la B maiuscola, quella della cultura e dell’arte» ha detto dal podio dopo aver diretto la suite dal Romeo e Giulietta di Prokof’ev e la Sinfonia Dal Nuovo Mondo di Dvorak. Ad applaudirlo il sovrintendente designato Stephane Lissner che sogna di averlo in teatro «per un progetto dedicato al Settecento napoletano». Anche Alexander Pereira, che da poco ha lasciato la Scala per il Maggio musicale, vorrebbe Muti a Firenze, magari per un Simon Boccanegra. Città, quella toscana, dove il direttore ha mosso i primi passi guidando il Maggio dal 1968 al 1980. «Ogni volta che torno a Firenze devo sempre esprimere un senso di gratitudine, non solo perché qui sono nati i miei figli, ma perché grazie a questo teatro ho iniziato la mia carriera e le mie battaglie per la cultura. È motivo di grande orgoglio tornare qui» ha detto a Firenze.
Alla Scala, dove Muti è stato fatto accomodare nel camerino del direttore musicale (quello che è stato suo, dopo il restauro, solo durante le repliche dell’Europa riconosciuta di Salieri) solo parole legate agli affetti. «Mi ha commosso il gesto dei mie musicisti della Chicago Symphony orchestra che alla fine non hanno voluto alzarsi in piedi, non lo fanno quasi mai. Lo hanno voluto fare qui, in questo teatro come a dire: Muti è il nostro direttore, noi lo amiamo. E voi?» dice il maestro con la voce che un po’ tradisce l’amozione. Guardando poi all’esito musicale della serata. «L’orchestra ha suonato con la consapevolezza di essere in un teatro importante per me e per tutto il mondo della musica» riflette Muti che sul leggio ha messo l’ouverture dell’Olandese volante di Richard Wagner e la Sinfonia Mathis der Maler di Paul Hindemith, pagina che il compositore tedesco scrisse ispirandosi alla sua omonima opera lirica e raccontando in musica tre pannelli del polittico di Grünewald per l’altare della chiesa di Issenheim, ora conservato al museo di Colmar: il Concerto degli angeli, la Deposizione e le Tentazioni di Sant’Antonio. Seconda parte con la Sinfonia n. 3 in do minore di Sergej Prokof’ev, ruvida e tagliente, ispirata all’opera L’angelo di fuoco. E come bis l’Intermezzo della Fedora di Umberto Giordano, opera che debuttò al Lirico di Milano nel 1898: «un omaggio al canto italiano che è sempre nobile» ha spiegato.
Dunque un programma sinfonico, «severo» come lo ha definito lo stesso Muti, ma dai connotati fortemente teatrali e visionari quello proposto dal maestro con la sua orchestra che guida dal 2010 e al quale è legato sino al 2022.Un programma che ha permesso di apprezzare le grandi qualità timbriche e tecniche dell’orchestra: ottoni lucenti, legni penetranti, archi avvolgenti. Tecnica, strepitosa, ma soprattutto cuore perché i musicisti americani (molti quelli di origine asiatica tra i leggii) hanno dato corpo alle intenzioni di Muti per un Wagner ammaliante e ipnotico, per un Hindemith dal sapore antico e austero, spirituale nel racconto sacro e per un Prokof’ev dove carne e spirito combattono in un confronto serrato e senza respiro sino all’ultimo e penetrante accordo.
Grida di “Bravo!” da platea e palchi. Alla fine tutti in piedi a salutare Muti. In platea il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini accolto dal sovrintendente designato Dominique Meyer (non c’era invece l’ex sovrintendente Pereira) che entrerà in carica il 1 marzo, da sempre amico di Muti, che ha più volte detto di voler riportare il maestro in buca alla Scala per un’opera. Il direttore, stavolta, non ha chiuso la porta: «Vediamo in base ai miei impegni e alle proposte che mi verranno fatte».
Per intanto il pubblico gli ha riservato una grande festa, nonostante il teatro non fosse tutto esaurito come a Firenze e a Napoli: i prezzi, forse, hanno scoraggiato qualcuno (un posto di platea era in vendita a 200 euro più il 20% di prevendita, ma Firenze e Napoli il biglietto più caro era a 180 euro). Sicuramente per la Scala dell’era Meyer, come ha sottolineato più volte lo stesso manager francese, una delle prime sfide è quella di tornare a riempire la sala (nelle ultime stagioni a fronte di alcuni titoli gettonatissimi, in diverse serate molti posti sono rimasti liberi) riconquistando pubblico.
Nelle foto @Silvia Lelli il concerto della Chicago symphony diretta da Riccardo Muti al Teatro alla Scala