Le opere di Puccini e Mascagni in un unico racconto immaginato dal regista in una Sicilia cupa e matriarcale
Gianmaria Aliverta cade sul passito. Il vino. E non è da lui, esperto di cucina, cuoco provetto che si cimenta sui social con ricette lombardo-emiliane nel nome di Giuseppe Verdi. Sarà forse perché il vino in questione è siciliano? Chissà. Di certo nella sua Cavalleria rusticana la mattina di Pasqua si brinda non con un rosso mosso – spumeggiante e sincero – ma con un passito, vino quantomeno strano per un prosit. Tanto più se Turiddu intona il brindisi attingendo all’ampolla del vino da messa che, regola liturgica vuole, deve essere un passito. Vino, quello che Turiddu beve nel calice (usato dal sacerdote durante l’Inneggiamo in un’insolita e antiliturgica elevazione davanti alla statua della Madonna addolorata), che è quello che è andato a prendere (forse… Mascagni e i suoi librettisti lasciano qualche dubbio) a Francofonte e che ha portato a Mamma Lucia. Che di mestiere, nella Cavalleria rusticana firmata Aliverta, fa la sacrestana e non (come da libretto) l’ostessa e che poi, nel tempo, sempre nella rilettura del regista piemontese, compie una scalata sociale (matrimonio? titolo nobiliare acquistato con il denaro?) che la porterà a diventare principessa. La zia Principessa della pucciniana Suor Angelica, quella cattiva che fa firmare (qui, però, lo firma lei) alla religiosa un foglio in cui rinuncia all’eredità a favore della sorella… Angelica che è poi il nome che Lola, sì, quella di Cavalleria rusticana, la moglie di Alfio, ha preso una volta entrata in convento e indossato il velo. Entrata per espiare la colpa della fuitina con Turiddu consumata in chiesa il mattino di Pasqua, sotto gli occhi di una compiacente e collaborante Mamma Lucia. Doppio ruolo quello della principessa Lucia che finisce per imparentare Turiddu e Lola e che, se non bastasse, concepiscono un figlio, quello del Senza mamma o bimbo tu sei morto dell’atto unico pucciniano. Ma anche questo non è vero, perché il “figlio della colpa” non è morto (idea già messa in campo da Damiano Michieletto nel suo folgorante e insuperato Trittico nato a Vienna e passato anche dall’Opera di Roma) è stato allevato da Santuzza… vive e vede la mamma morta a terra in convento.
Qualcosa non torna nell’inedito dittico formato da Suor Angelica di Giacomo Puccini e Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni, titoli autonomi che Aliverta ha voluto cucire insieme in un’unica storia: sforzo intellettuale da teatro di regia tra idee già viste e conti che non tornano, esperimento certo non pienamente riuscito per un regista che con l’opera in periferia, sui tetti o in cascina (luoghi dove si sente forse più libero, tra taglia e cuci di Carmen o Gianni Schicchi con un protagonista a metà tra Renzi e Berlusconi) ha dimostrato che ha qualcosa da dire. Dittico andato in scena in ottobre al Teatro Goldoni di Livorno, poi a dicembre al Teatro Coccia di Novara e ora in viaggio verso il Sociale di Rovigo. Coproduzione con le scene di Francesco Bondì, i costumi di Sara Marcucci, la bacchetta di Daniele Agiman alla guida dell’Orchestra filarmonica pucciniana e del coro Ars lyrica.
In questo insolito dittico non è il racconto che non torna, tutto ci può stare nel mondo della lirica dove «ogni dramma è un falso», ci sta anche la scelta di imparentare i personaggi di due opere che sono due mondi a sé. Una sfida da guardare con interesse. A non tornare, però, alla prova del palcoscenico è il modo di raccontare. Non certo (o non solo) per la scelta di aprire la serata con Suor Angelica che nella riscrittura di Aliverta accade sette anni dopo i fatti di Cavalleria, atto unico che arriva nella seconda parte della serata con il suo finale strappa appalusi più di quello pucciniano: la saga di Star Wars ci ha abituati a veder prima gli episodi 4, 5 e 6 e poi l’1, il 2 e il 3, senza contare gli spin-off, Certo, un po’ spiazza perché alcuni riferimenti li capisci solo alla fine (tipo Santuzza che sfila in processione con il bambino e porge il coltello ad Angelica/Lola per completare il suicidio). Ma va comunque bene che Cavalleria sia il prequel e Suor Angelica il sequel, per restare in ambito cinematografico: ci sta, stimola il pensiero.
Pensiero che, però, trova qualche intoppo di fronte a ingranaggi del racconto che non girano. La zia che firma la pergamena la posto di Angelica restia a farlo annulla il senso del drammatico colloquio: la Principessa avrebbe potuto farlo prima, a casa, senza scomodarsi a passare in convento. Angelica che si pente di essersi avvelenata perché nel momento in cui invoca la grazia di essere salvata senza morire in peccato mortale si taglia le vene reiterando il suo gesto disperato? In Cavalleria poi Mamma Lucia fa il palo a Turiddu e Lola che consumano il loro amore nell’atrio della chiesa, ma subito dopo a Santuzza che le rivela la tresca tra il figlio e Lola risponde: «Che cosa vieni a dirmi in questo santo giorno?».
Se funziona molto bene, in Cavalleria, il ritratto che Aliverta fa di una società inaspettatamente matriarcale – la scena del corteggiamento sul coro iniziale e lo sguardo indagatore verso Santuzza, la diversa, anche la scelta di far uccidere Turiddu da Santuzza e non da Alfio – non girano gli ingranaggi del racconto che il regista fa attraversare dal filo rosso di una Chiesa che opprime in Suor Angelica: la Zelatrice che si flagella con il rosario della statua della Madonna o la Badessa che si presenta con in testa una mitria papale e stivali in oro con tanto di zeppa o Angelica che versa il veleno nel calice della messa e Turiddu che lo usa per il brindisi più che suscitare indignazione o essere gesto blasfemo e provocatorio fanno spuntare un sorriso e dicono un modo distorto di vedere la vita claustrale.
Eppure l’impianto scenico di Francesco Bondì è filologico nel ricostruire i luoghi e le suggestioni della religiosità pasquale siciliana: la tela quaresimale con la Deposizione, che addobba i portoni delle chiese in Quaresima, lascia il posto a un trionfo barocco con lo svelamento del Cristo risorto in un tripudio di luci e incenso che, insieme alla musica, evocano la meraviglia e insieme il mistero della Pasqua. Una chiesa vista prima da fuori e poi nel suo interno, quasi con un movimento di macchina a zoomare e ad allargare il campo. La stessa chiesa che in Suor Angelica è vista dalla grata della clausura, un dietro le quinte che la facciata del Barocco nasconde, un luogo al quale le statue delle virtù teologali di Fede e Carità danno le spalle, ma sul quale veglia lo sguardo misericordioso di Pietro e Paolo, coloro che la misericordia l’hanno sperimentata in prima persona e possono dunque indicarla nel cuore di Cristo Risorto.
Una misericordia e un perdono che i personaggi di Puccini e Mascagni raccontati da Aliverta – e vestiti da Sara Marcucci, abbastanza bene in Cavalleria un po’ in stile Dolce e Gabbana, ma non si capisce il perché di tagli da passerella e tessuti stampati in Suor Angelica, astratti in un impianto molto realistico – non sperimentano, chiusi nel loro egoismo. Pugno nello stomaco che ti accompagna anche dopo che il sipario è calato. E che, certo, dice che l’opera ancora una volta ha fatto centro. Anche grazie alla direzione di Daniele Agiman che offre le pagine nella loro immediatezza: la resa, vista la prova non eccelsa di orchestra e coro, non è sempre ottimale, altalenante e faticosa in Suor Angelica più teatrale in Cavalleria, in entrambi i casi poco verista e marcata. Strada che Donata D’Annuncio Lombardi sceglie per la sua Santuzza lirica, meno sanguigna e più dolente, forse non così crudele come la disegna Aliverta nel gesto di porgere il coltello ad Angelica. Che è Marta Mari a suo agio nella scrittura pucciniana, ma anche in quella di Mascagni dove veste, appunto, i panni di Lola. Doppio ruolo per Anastasia Boldyreva, cupa Zia Principessa e Mamma Lucia fintamente pia. Turiddu ha lo squillo generoso di Aquiles Machado, Alfio il piglio di Sergio Bologna, la Zelatrice la voce tagliente di Elena Caccamo, che si fa notare per presenza scenica anche in Cavalleria seppur tra le file del coro.
Nelle foto @Mario Finotti Suor Angelica e Cavalleria rusticana al Teatro Coccia di Novara