I giovani del Teatro alla Scala in Petite mort e Bolero proposti insieme a Symphony in C di Balanchine
Un percorso dalla luce al buio. Apparentemente pessimista. Un percorso contrario a quelli che solitamente si imbastiscono per raccontare una speranza. Parabola sugli affetti e su come viverli. Un percorso, quello proposto dal trittico di balletti che ha chiuso la stagione di danza del Teatro alla Scala, che propone tre variazioni sul tema dell’amore. Un percorso involutivo, quasi. Con la temperatura emotiva e sentimentale, per non dire erotica, che sale progressivamente. Un racconto fatto di corpi che dialogano, si cercano, si scontrano e quasi si lacerano in un cannibalismo dei sentimenti che diventa, nel finale con il Bolero di Maurice Ravel nella visione di Maurice Béjart, anche annientamento fisico.
Tre capolavori del Novecento. Il luminoso – anche se già venato di ombre, non fosse altro per i costumi nerissimi dei ballerini, in contrasto con i bianchissimi e scintillanti tutù delle ballerine – Symphony in C che George Balanchine ha imbastito sulla Sinfonia n.1 in do maggiore di Maurice Ravel – Felix Korobov dirige puntuale e in stile l’orchestra scaligera. Il poetico Petite mort immaginato da Jiří Kylián su fondo nero su due movimenti di altrettanti concerti per pianoforte e orchestra di Wolfgang Amadeus Mozart, l’Adagio del K488 e l’Andante del K467 – solista alla tastiera Takahiro Yoshikawa. E poi il celeberrimo Bolero dove Béjart mette il danzatore – maschio o femmina non importa, la coreografia è unisex – su un grande tavolo rotondo rosso circondato da sedie sulle quali stazionano, come in una taverna buia e fumosa, uomini a torso nudo, attratti fatalmente dalla danza ipnotica la cui temperatura cresce mano a mano che la partitura corre verso il caos organizzato dello sconquassante finale. Dove il danzatore soccombe, stremato sul tavolo, quasi cannibalizzato dall’orda umana che lo circonda e che balsa sul tavolo appena le note di Ravel si spengono e il fragore orgiastico lascia il posto al silenzio. E al buio.
Parabola di un amore. Vissuto con la leggerezza della prima volta, quasi della cotta, nella Symphony di Balanchine dove ci sono l’entusiasmo e il sorriso, ma anche lo sguardo meditativo di chi lancia in avanti un progetto di vita. Almeno così appare nella rilettura del capolavoro datato 1947 che offre ora il Corpo di ballo di Frédèric Olivieri. Tutto affidato ai giovani talenti della compagnia, impeccabili nel restituire il Palazzo di cristallo di Balanchine – si intitolava così, inizialmente, il lavoro che il coreografo di San Pietroburgo aveva montato per il Corpo di ballo dell’Opera de Paris – un intreccio di tecnica e virtuosismo, fragile come un cristallo. Fragile come l’amore. Che gli scaligeri raccontano con passione e tecnica: le linee fascinose di Martina Arduino e Nicola Del Freo nel primo movimento, lo struggimento della danza di Nicoletta Manni e Marco Agostino nel secondo, lo scatto di Gaia Andreanò e Christian Fagetti nel terzo e la presenza nobile e magnetica di Maria Celeste Losa e Mattia Semperboni nel quarto.
Un amore vissuto con passione, ma anche con quel filo di distaccata ironia che non guasta, nella Petite mort dove Kylián gioca con un Settecento nel quale si intrecciano le relazioni pericolose – ardite tecnicamente, intense emotivamente – di sei coppie, uomini in mutande a destreggiarsi con il fioretto, donne in body (tutto color carne a dare l’illusione di corpi nudi e liberi) che giocano a nascondersi dietro abiti/scultura che scivolano su rotelle per il palco. Palco immerso nel buio, luci che tagliano la scena scendendo dall’alto come lame inquadrano un racconto che si snoda tra momenti corali e passi a due poetici e intensi: cattura quello che vede un appassionato Mick Zeni, in forma smagliante dialogare, con la ritrosia sinuosa di Nicoletta Manni, avvince per fluidità e bellezza quello con Giulia Schembri e Marco Messina capaci di respirare insieme e fare di due fisicità un unico corpo palpitante di amore.
Sul tavolo rosso, per Bolero, dopo che è salito Roberto Bolle – la sua danza sembra incarnare una lotta tra la bellezza pura contro gli orrori del mondo – si muove Gioacchino Starace, fisico scultoreo che danza sinuoso e ammiccante i passi che Béjart modella sulla musica, in perfetta sintonia con il crescere ossessivo della melodia che piano piano vede tutti gli strumenti dell’orchestra aggiungersi al tamburo che scandisce il ritmo. Le mani che emergono dal buio, le stesse che roteano in aria o si uniscono ripetendo ad libitum il gesto che diventa una sorta di ritornello rassicurante, quasi un provare ad esorcizzare o ad allontanare con la razionalità l’elemento irrazionale e dionisiaco suggerito dalla musica. Alla quale si abbandonano, in un crescendo di delirio erotico e sensuale, Massimo Garon, Gabriele Corrado, Mattia Semperboni e Nicola Del Freo che danzano ai piedi del tavolo, ma che potrebbero tranquillamente starci sopra, danzare da solisti perché tutti perfetti nell’incarnare lo stile di Béjart che chiede ai corpi di farsi linguaggio vivo, immagine di un’emozione che cova sottopelle. Quella che non si riesce a trattenere, sembra dire il coreografo francese nel suo Bolero, ipnotico crescendo di danza di frastornante bellezza.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Symphony in C, Petite mort e Bolero