A Bergamo prima mondiale in forma scenica dell’opera creduta perduta, ma ora ritrovata da Candida Mantica Regia in platea di Micheli, ottima direzione di Tingaud Pubblico nei palchi della sala ancora in restauro
Nessuno l’aveva mai vista e ascoltata prima. Nemmeno il suo autore, Gaetano Donizetti. Perché L’ange de Nisida, una volta scritta (libretto in francese di Alphonse Royer e Gustave Vaëz) e provata con gli interpreti scritturati nel 1840 dal Théâtre de la Renaissance di Parigi, non andò mai in scena: il teatro fallì chiudendo i battenti e Donizetti smembrò la partitura “riciclandola” con un copia e incolla d’autore in altre sue opere. Fa dunque un certo effetto assistere a una prima esecuzione assoluta. E l’effetto è ancora più spiazzante se il suo autore, Gaetano Donizetti appunto, è scomparso centosettantuno anni prima e se quella partitura – perché in questo caso si tratta di un melodramma – porta la data del 1839.
L’effetto di questo Ange che sino ad ora non esisteva. O meglio. Erano solo fogli sparsi qua e là, non più in ordine come nel progetto di Donizetti, diventati nel tempo brutta copia (giusto un modo di dire, perché la musica è bellissima) per La favorite (L’ange de Nisida ne richiama molto la trama), ma anche per Don Pasquale (inconfondibile la melodia affidata nel primo atto a don Gaspar che tornerà poi nel Fuoco insolito del titolo buffo del 1843). Fogli copiati e incollati, abbandonati poi in qualche faldone, conservati alla Bibliothèque nationale de France dove li ha trovati Candida Mantica, musicologa che ha ricostruito l’opera di cui si conosceva l’esistenza, ma che era irrintracciabile. Otto anni di lavoro e ora a Bergamo la prima mondiale in forma scenica – dopo un’esecuzione, in forma di concerto, a luglio a Londra, ma su una partitura arricchita da pagine spurie incisa per OperaRara – in avvio dell’edizione 2019 del Donizetti opera.
Storia di Sylvia, l’angelo di Nisida – l’isola che si affaccia sul Golfo di Napoli, cantata anche da Edoardo Bennato –, amante del re don Fernand d’Aragon che, per salvare le apparenze ed evitare la scomunica, la fa sposare a Leone de Casaldi, innamorato (ricambiato) della ragazza. Ma quando il giovane scopre l’inganno ripudia Sylvia e si ritira in convento dove la ragazza lo raggiunge per chiedergli perdono prima di morire.
Luogo ideale, il festival bergamasco che la città natale dedica ogni anno in autunno a Donizetti, per l’approfondimento filologico e musicologico dell’autore. Spazio privilegiato quello del teatro perché la lirica deve necessariamente passare per la prova del palcoscenico: teatro in musica, fatto di parola, suono e azione. Teatro che in questo caso è un cantiere, quello del Donizetti, in restauro dal 2018 e riaperto appositamente (a meno di un anno dal termine dei lavori) per mandare in scena sotto l’occhio vigile del busto di Donizetti L’ange de Nisida. Non sul palcoscenico, ma in platea con il pubblico nei palchi e in una tribuna costruita sul boccascena del palco. I significati si moltiplicano per l’opera cantiere – perché ricostruita come una casa, mattone su mattone, foglio su foglio – nel cantiere del teatro. E ci stanno tutti ed emozionano (ma la foto ad uso social nel foyer con il caschetto giallo da cantiere è forse troppo pop per una prima mondiale di una partitura ritrovata). Fa effetto entrare nel cantiere del teatro tra scale di marmo già posate e pavimenti che sono ancora una gettata di cemento, pareti ancora con l’intonaco e tubi con i fili elettrici a vista. Così ci si siede nei palchetti sulle sedie nuovissime e si appoggiano i gomiti sulla balaustra imbottita di gommapiuma perché i rivestimenti in legno non sono ancora stati posati.
Già dentro la scena come l’ha pensata il regista Francesco Micheli (direttore artistico del Donizetti opera) con l’azione in platea, dove non ci sono ancora le poltrone, con l’orchestra, regolarmente in buca, ma disposta al contrario con il direttore che dà le spalle al palcoscenico e guarda la sala. Idea certo non nuova (Luca Ronconi lo aveva fatto a Firenze per l’Orfeo di Monteverdi che aveva inaugurato il restaurato Teatro Goldoni), che comunque funziona e cattura nel gioco di teatro nel teatro con il lampadario che cala dall’alto, il coro che canta (nella prima parte) in galleria (e getta fogli dello spartito e rose e ritratti del re in platea… ma forse al terzo lancio anche basta…), le proiezioni sul pavimento tra vecchie stampe di Nisida e di Napoli, tarocchi, stemmi araldici e pagine dello spartito con le quali gli interpreti interagiscono. Come nel poetico finale dove mentre la musica e le luci si spengono compare la prima pagina dello spartito ad incorniciare il corpo di Sylvia al quale spuntano le ali (le aveva già al suo ingresso in scena) che lo fanno diventare illustrazione della copertina.
Racconto simbolico perché i fogli sparsi sul pavimento (le scene sono di Angelo Sala) richiamano quelli disordinati della partitura dell’Ange tra i quali Candida Mantica ha fatto ordine. Così dalla musica prende forma il racconto che Micheli tiene continuamente in bilico tra favola edificante – i bellissimi costumi in carta di Margherita Baldoni vengono strappati per provare a rivelare la verità che sta dietro le apparenze, per svelare un non detto che è l’inganno ordito da Ferdinando nei confronti di Leone – e una modernità alla Gomorra: d’altra parte siamo a Napoli e don Fernand d’Aragon è sempre scorato da quattro scagnozzi (uno mangia anche una pizza, giusto per non far mancare la Napoli da cartolina) che alla fine, in un regolamento di conti, uccideranno Sylvia. Mix che tutto sommato non disturba. Certo, se fanno sorridere le alucce d’angelo allusive con le quali Sylvia si presenta la prima volta in scena, un po’ urta il vedere Leone tratteggiato da Micheli come uno stupidotto ingenuo (una specie di Nemorino del primo atto di Elisir) anche nelle goffe movenze: eppure il personaggio ha un suo spessore tragico, il puro, l’idealista, quasi prefigurazione del wagneriano Parsifal.
Pubblico dentro la musica con l’effetto stereo del coro in galleria, ma anche dell’orchestra in mezzo alla sala diretta con mano sicura da Jean-Luc Tingaud capace di restituire tutte le sfumature della partitura che parte leggera con un basso-baritono buffo a tenere le fila della prima parte (sul modello della Linda di Chamounix per intenderci) e trascolora piano piano nel dramma sino al tragico e commovente finale. Una sfida, certo, perché l’interpretazione è tutta da costruire dato che L’Ange si ascolta per la prima volta. Sfida che il direttore vince alla grande grazie a una lettura raffinata e sontuosa, capace di scavare nelle pieghe melodiche di Donizetti, di dispiegarle nella loro bellezza e di restituire le oasi incantante della scrittura. Che è una scrittura matura, sfaccettata e complessa, drammaturgicamente efficace nel ritmo impresso al racconto e nello scavo psicologico dei personaggi, prototipi di un’umanità che lo sguardo “sociologico” di Donizetti ha sempre saputo raccontare.
Un capolavoro ritrovato, dunque, restituito al meglio anche dai cantanti, in scena senza rete di protezione perché su un palco a 360 gradi. Sylvia è una musicalissima e dolente (nel canto e nella figura) Lidia Fridman, voce scura e avvolgente (e non puoi non pensare alla Leonora affidata, nella Favorita, a un mezzosoprano), tecnica e cuore per disegnare i tormenti di una donna che da subito appare vittima di un potere più grande di lei. Modernissimo, qui, Donizetti nel mettere in musica wuella che oggi sarebbe una denuncia alla #metoo. Leone ha lo squillo generoso e limpido di Konu Kim, voce fascinosa, capacità di emozionare con un canto che, affinando ulteriormente la tecnica, non potrà che guadagnare in bellezza. Don Fernad ha l’autorevolezza vocale di Florian Sempey, baritono dalla perfetta linea musicale che scolpisce la parola e la fa diventare azione. Il personaggio buffo, anche tragicomico di Gaspar è reso con misura e gusto da Roberto Lorenzi, il monaco è un puntuale Federico Benetti.
Nelle foto @Gianfranco Rota L’ange de Nisida al Donizetti di Bergamo