Nei teatri lombardi il melodramma ispirato a Shakespeare nell’allestimento introspettivo e cupo di Elena Barbalich Gianluigi Gelmetti dal podio ricrea un suono ancestrale
Hanno qualcosa di sinistro i due paralumi che da un palco di terz’ordine cadono in platea – sulle scale che conducono al guardaroba, senza colpire in testa nessuno, sono comunque leggeri, stoffa e un telaio sottile – mentre il direttore attacca gli accordi sghembi e ancestrali che danno il la al Macbeth di Giuseppe Verdi. Succede a Como, al Teatro Sociale. Fa tappa in riva al Lario l’allestimento del Circuito lirico lombardo dell’opera che Verdi scrisse ispirandosi a William Shakespeare. Arriva e riparte, come tutti gli allestimenti del cartellone che unisce le forze produttive del Ponchielli di Cremona (dove sarà in scena il 22 e il 24 novembre), del Fraschini di Pavia (teatro capofila dove è nata la produzione), del Grande di Brescia (in cartellone il 14 e il 16 novembre) e del Sociale di Como, appunto.
Gli inglesi pensano che il Macbeth, nella versione in prosa shakespeariana, porti rogna e per questo tendono a non pronunciarne il titolo – nella lirica succede con un bellissimo (e poco eseguito in Italia) melodramma verdiano. Avranno ragione? pensi vedendo i pompieri che prontamente si accertano che sia tutto in regola mentre Gianluigi Gelmetti dal podio non si scompone e continua a battere il tempo del preludio che già disegna l’ambiente sonoro e dà la temperatura emotiva di quello che si vedrà in scena. Un delirio, una febbre, una visione di un uomo la cui mente è confusa e alterata dalla ricerca del potere. Manipolata (ma sarà davvero così?) dalla moglie che lo spinge a coltivare a qualsiasi prezzo – il prezzo del sangue che diventerà poi il prezzo dell’annientamento umano – l’ambizione.
Potrebbe essere tutta un’invenzione, una costruzione della mente? Potrebbe, risponde la regista Elena Barbalich che costruisce il suo Macbeth tutto in trasparenza, in dissolvenza, sfocando i contorni delle figure che si muovono sulla scena per raccontare tutta la vicenda come un’allucinazione del re scozzese. Vicenda che parte subito, in Verdi e in Shakespeare, schiacciando l’acceleratore della fantasia perché alcune streghe appaiono a Macbeth predicendogli un futuro che lo vedrà in poco re… lui ci crede e per assecondare tali profezie ci mette del suo e affretta gli eventi con omicidi e sangue. Elemento soprannaturale e innaturale quello delle streghe che sposta subito il racconto sul piano dell’irreale. Ma che se visto come proiezione della mente ci sta. E funziona. Immerso nel buio dal quale prendono forma pensieri e allucinazioni, lo spettacolo di Elena Barbalich (nato al Teatro nacional de Sao Carlos a Lisbona) procede come un flusso di coscienza, uno srotolarsi ininterrotto di visioni dove, come in un delirio appunto, si intrecciano alla realtà, la deformano, la trasformano.
Taglio cinematografico (anche nell’estetica dei costumi disegnati, come le scene, da Tommaso Lagattolla e che ricordano il Macbeth di Roman Polanski) nell’inquadratura in cinemascope del palco disegnato in orizzontale (ben illuminato da Giuseppe Ruggiero) e abitato da pochi elementi: bastano una scalinata, un trono prima a grandezza naturale e poi in versione gigante, un grande disco che è uno specchio che va in frantumi (ecco che torna la sfortuna), il tavolo del banchetto, il calderone dal quale le streghe evocano le apparizioni per dare corpo all’incubo che vive Macbeth. Nel quale si infilano la Lady e Banco insieme ad una varia umanità perennemente in lutto, disorientata, sghemba e nervosa nei movimenti.
Come sghemba e ancestrale è la direzione di Gelemtti tra tempi ripensati e sonorità spinte al limite per evocare la sinistra atmosfera della partitura, un horror in musica dove su tutte le pagine si allunga un’ombra scura, quasi un vento freddo che arriva dritto allo stomaco. Brivido in musica che non ha bisogno di altri artifici. Come l’idea (non nuova) di affidare la lettura della lettera a una voce maschile (la voce di Macbeth che risuona nella mente della Lady mentre scorre le righe che le ha scritto il marito) registrata e amplificata (sembra di riconoscere la voce dello stesso Gelmetti che torna anche nella prima apparizione del terzo atto). O come il calcare la mano su una voce deformata della Lady nella scena del sonnambulismo: Silvia Dalla Benetta, che da belcantista affronta con sicurezza le vette che Verdi chiede al soprano, la spezza, la rende piccola, quasi voce di una bimba, la spinge sino al declamato (indicazioni che arrivano certo dal podio…) facendo un po’ perdere la tensione emotiva della grande arcata musicale che culmina con il re bemolle che va a perdersi fuori scena… in un’allucinazione dai contorni sfocati.
Angelo Veccia è un Macbeth ripiegato su se stesso, un re che si canta tutto addosso, quasi a volersi raccontare la sua storia tenendo fuori il mondo. Solido e convincente il Banco di Alexey Birkus, stentoreo e strabordante il Macduff di Giuseppe Distefano. Affidabile e partecipe l’orchestra dei Pomeriggi musicali. Coinvolgente e commovente, specie nel patriottico Patria oppressa, il coro OperaLombardia preparato da Diego Maccagnola.
Nelle foto Macbeth al Sociale di Como