All’Opera di Roma in scena i rifugiati accolti da Sant’Egidio per raccontare il dramma evocato dalla musica di Mozart diretta, in sintonia con la regia, da Michele Mariotti
Inizia con un pugno nello stomaco. Un’immagine potente, rifugiati e migranti ammassati dietro ad una rete metallica. Guardano il mare che hanno attraversato e dal quale sono riusciti ad uscire vivi (altri non ce l’hanno fatta, lo sappiamo). Ma non sono tranquilli, hanno il terrore negli occhi di fronte ai soldati che, dall’altra parte della rete, imbracciano il fucile. Li rimanderanno indietro (in Libia)? Come sarà il loro futuro che, mettendosi in mare, hanno cercato di cambiare? Robert Carsen, regista dell’Idomeneo di Wolfgang Amadeus Mozart in scena al Teatro dell’Opera di Roma, ci mette (e si mette) dalla loro parte, perché noi del pubblico siamo al di qua della rete con loro, a guardare il mare.
Siamo all’opera, è vero, seduti su poltrone di velluto. Ma non c’è nulla di rassicurante. Perché, per una volta, non vale la potenza della lirica (rassicurante, appunto) dove, come cantava Lucio Dalla, «ogni dramma è un falso». Questa volta il dramma è vero, carne palpitante, lacrime che scendono sui volti a dire il dolore, per quanto composto e pieno di dignità, di una ferita ancora aperta. Perché sul palco ci sono i rifugiati accolti dalla Comunità di Sant’Egidio, scappati dalla guerra e dalle violenze della Siria e del Libano. Li ha voluti il sovrintendente Carlo Fuortes quando ha saputo la cifra contemporanea della regia di Carsen. Idea subito accolta dal regista canadese. Una trentina di stranieri, coperta in spalla, borsa con i resti della loro precedente vita dentro, danno corpo ai prigionieri di guerra troiani, quelli che Idomeneo ha deportato a Creta insieme a Ilia, la loro principessa. Perché oggi, sembra dire Carsen con la sua regia politica, i migranti sono prigionieri di una guerra – la Terza guerra mondiale come la definisce Papa Francesco – che vede il Nord contro il Sud, i ricchi contro i poveri, quelli che hanno avuto la fortuna di nascere dalla parte giusta (sarà davvero così, poi?) del mondo e gli altri che la sopravvivenza se la devono conquistare magari attraversando il mare in un triplo salto mortale al termine del quale non sai se atterrerai ancora vivo e poi, una volta “salvi” lottando contro un mostro invisibile, ma che si avverte sulla pelle, quello del pregiudizio. Una guerra che si combatte non (solo) con le armi, ma con dazi e sanzioni, con decreti sicurezza e «non puoi sederti vicino a me sul bus perché hai la pelle di un altro colore».
Una guerra che, come i carri armati e i caccia devastano le case, devasta (e logora) le anime. Mozart, la sua musica, la raccontano questa guerra nell’incertezza sul futuro dei prigionieri troiani che si specchiano nei rifugiati di oggi – eccolo il pugno nello stomaco. Ma anche nello scontro generazionale – anche qui una guerra, che, però, va combattuta per uscirne più forti e con una propria identità formata – tra Idomeneo e Idamante, «un altro me, un altro me sesso» dirà il padre del figlio: due modi di vedere il potere, due modi di essere uomini dice Carsen affondano le mani nella partitura e nel libretto di Gianbattista Varesco con uno spirito (iper)critico sul nostro mondo, sulla politica, appunto, sul necessario passaggio di testimone tra generazioni, sull’idea di guerra e di pace – ma senza cadere nella retorica del «mettete dei fiori nei vostri cannoni». Non c’è retorica nella musica di Mozart. E così la restituisce alla perfezione, nel suo essere radiografia dei sentimenti, Michele Mariotti dal podio. Visto e ascoltato così il gesto di Idamante che libera i prigionieri è l’affermazione di un’autonomia, di una distanza da un modo di intendere i rapporti tra i popoli. Un gesto che prende ancora più forza se fatto da un ragazzo che veste la mimetica suo malgrado. Visto e ascoltato così il Padre, germani addio di Ilia (straordinaria Rosa Feola) è la presa di coscienza di chi deve reinventarsi una vita perché difficilmente tornerà a casa, mitigato, però, dal consolatorio Se il padre perdei, la patria, il riposo tu padre mi sei. Visto e ascoltato così (con la voce rotta dal dolore di Charles Workman) il Fuor del mare di Idomeneo è l’amara riflessione dell’uomo pubblico che deve trovare il compromesso tra politica ed etica. Visto e ascoltato così (anche se si vorrebbe più pathos nel canto di Miah Persson) il gesto di Elettra che si uccide dopo il suo Oreste e d’Aiace racconta l’aridità di chi, mosso dall’odio, non sa godere della pace.
Idomeneo diventa così un reportage di guerra, un live da uno dei fronti del nostro mondo, una spiaggia che si affaccia sul Mediteraneo. Si svolge quasi tutto lì lo spettacolo essenziale di Carsen che firma le scene insieme a Luis Carvalho (autore anche dei costumi): un fondale che rimanda perennemente l’immagine del mare d’inverno, qualche rete metallica e una tenda da campo (e qui non puoi non pensare al recente Giulio Cesare in Egitto di Handel al Teatro alla Scala), tavoli e panche da caserma, tanti giubbotti di salvataggio arancioni arenati sulla spiaggia, relitti di chi non ce l’ha fatta. Vittime di guerra. Come i soldati, morti immersi nel fango dopo che su Creta si è abbattuta la punizione e divina, che, in uno scatto visionario di Carsen, tornano a vivere e puntano il dito contro il «voto tremendo» di Idomeno che ha giurato a Nettuno di sacrificargli la prima persona che avrebbe incontrato sulla spiaggia se si fosse salvato dalla tempesta che lo aveva colto in mare. Atto di egoismo di un potere che scarica le proprie responsabilità. Tragedia (ecco uno dei nodi dell’opera) nel momento in cui quella persona è il figlio Idamante. Tragedia che è tutta umana, giocata nell’anima di Idomeneo, in lotta contro se stesso e non con il dio. Perché l’elemento soprannaturale è azzerato nello spettacolo di Carsen. E anche nella musica di Mozart impastata di quotidiano da Mariotti. Forse perché pensi, una società che fa la guerra ha già bandito dio. Tanto che il sacrificio di Idamante avviene nel buio (che è quello della mente di un uomo che ha scelto la violenza), in una fabbrica diroccata che nemmeno la voce di Nettuno che – deus ex machina necessario per risolvere la complessa situazione tetica – riesce a rischiarare.
Lo rischiara quel buio la musica di Mozart. La restituisce umanissima, incarnata nella vita e in perfetta sintonia con la regia, la lettura musicale di Mariotti (che debutta sul podio dell’Opera di Roma). Un Mozart bello da ascoltare (e non vorresti che finisse dopo tre ore… vorresti ripartire da capo), innanzitutto, restituito magnificamente dall’orchestra dell’Opera che il direttore pesarese tiene saldamente in pugno senza far calare mai la tensione narrativa e drammatica. Un Mozart incalzante nel passo che il direttore imprime al racconto, che è teatro in musica, ricco di recitativi secchi e accompagnati. Un Mozart quello di Idomeneo che Mariotti fa diventare anche profonda riflessione, esplorando mondi interiori ignoti facendo delle introduzioni alle arie piccole miniature dove disegna l’ambiente emotivo anticipando, in suono, tutto quello che poi il canto dirà. Una narrazione che scorre con un respiro cinematografico, un lungo piano sequenza sonoro dove i sentimenti vanno e vengono in dissolvenza, dove le marce – moderne nella loro asciuttezza e che Carsen riveste di azione e di teatro sempre in sintonia con la musica – si innestano sul canto e al canto lasciano posto naturalmente.
Canto che a Roma è affidato a voci “da camera”, che a volte appaiono quasi piccole per la vastità del mare in scena. Voci raccolte per raccontare la tragedia con gli occhi di chi la vive. Gli occhi di Idomeneo cui Charles Workmann offre (perfettamente in sintonia con la lettura musicale e registica) la sua voce screziata e graffiata dal tempo. Gli occhi di Ilia che è una magnifica Rosa Feola, fuoriclasse (in ogni occasione) del canto, capace di affascinare con la sua voce ipnotica e la sua musicalità innata. Gli occhi di Idamante che – dato che sul leggio di Mariotti c’è la versione di Vienna della partitura – è un tenore, Joel Prieto: suona strano non sentire il personaggio affidato a un mezzosoprano, ma tutto sommato, per rendere la fragilità di chi vuole la pace, ma è costretto a fare la guerra, funziona. Gli occhi di Elettra che Miah Persson (peccato che a volte la voce si perda) fa meno veemente di come si ascolta di solito, guadagnando in musicalità, ma perdendo qualcosa nella temperatura emotiva del personaggio. Gli occhi di Arbace: in questa versione non ha la sua aria, ma Alessandro Luciano si guadagna un applauso dopo il lungo recitativo Sventurata Sidon detto davanti alle macerie fumanti di una città devastata dalla guerra. Che, comunque, non ha l’ultima parola.
Carsen con un finale pacifista dice – certo lo spera perché, lo dice Mozart «Ha vinto amore» – che la guerra è destinata ad essere persa da chi la combatte: perché i cretesi, tutti in mimetica, quando il loro re Idomeneo abdica per lasciare il posto al figlio Idamante, si tolgono i panni militari e avanzano in proscenio, verso di noi, vestiti come noi, come chi abita le nostre città, ci passa quotidianamente di fianco. Operai e impiegati, ragazzi e anziani. Profughi sopravvissuti al mare, che qualcuno non vorrebbe seduti a fianco sul bus. Ma che ci sono, non possono lasciarci indifferenti. E che, con Mozart, sono pronti ad assestarci un pugno nello stomaco. Per dirci che, forse, siamo tutti profughi.
Nelle foto @Yasuko Kageyama Opera di Roma Idomeneo di Mozart