Al San Carlo il soprano trionfa nell’opera ispirata al mito che Rossini scrisse nel 1819 per il teatro partenopeo Jacopo Spirei porta nel Novecento la tragedia greca
Alla fine non si salva nessuno. Sono tutti lì, sotto lo sguardo straniato di Ermione – gli occhi nel vuoto, le mani lungo il corpo in segno di resa –, sgozzati e pugnalati, riversi sulla tavola di quella che avrebbe dovuto essere una festa di nozze e invece si è trasformata in un’inquietante e sinistra altare del sacrificio. Immagine potente che vorrebbe, ma non ci riesce, farsi catarsi. Come accadeva nella tragedia greca. Come non può più avvenire, però, dopo che il teatro ha dismesso la sua funzione civile, come accadeva, appunto, nella Grecia antica. In molti hanno (ri)raccontato la tragedia, variazioni sul tema del mito incarnate, di volta in volta, in un presente che è già passato. Ma che sia stato Settecento, Ottocento o un inquieto Novecento la scelta è sempre stata quella di un’indagine, psicologica, sociologica o anche economica… sui temi del mito stesso. La catarsi, quella che vedeva il pubblico greco placare certi istinti vedendoli rappresentati in un rito sacro collettivo sulla skené, è diventata un fatto privato.
Questione di coscienza individuale. Ed è questo l’effetto che fa Ermione di Gioachino Rossini in scena al Teatro San Carlo di Napoli con la regia di Jacopo Spirei. Titolo che, come si dice in certi casi, vale il viaggio anche solo per la presenza in locandina di Angela Meade che veste i panni di Ermione – mentre mamma Elena e papà Menelao sono impegnati con Richard Strauss sul palco del Teatro alla Scala, in una sorta di prequel (anche se scritto dopo) della tragedia rossiniana, Die ägyptische Helena.
Effetto catarsi nella regia di Spirei. Catarsi per Ermione che ha bisogno di vedere, quasi come in una rappresentazione alla quale lei non prende parte, compiersi una tragedia. Per allontanare da sé un amore tradito, quello di Pirro che le preferisce Andromaca. Ermione non agisce, ma affida il compito di uccidere l’amante che la respinge a Oreste, salvo poi, in un delirio tipico della condizione bipolare cui oggi la società ci costringe, pentirsene. Ed ecco il Novecento scelto da Spirei per raccontare la tragedia, un inizio Novecento che avvicina, ma allo stesso tempo distanzia i fatti da chi è seduto in platea. Ed ecco che Ermione, la spettatrice della sua tragedia, diventa un tramite, un filtro tra noi e l’orrore. Sempre a parte, spesso in proscenio, sempre distanziata (non vuole e non cerca un contatto con gli altri) da qual mondo che dopo il crollo del mito non ha più punti di riferimento, preda com’è di istinti che rendono l’uomo estraneo a se stesso. Il nostro mondo? Ognuno deve trovare la propria risposta, perché ormai la catarsi è individuale. Il mondo (individualista anche in questo) non la vuole, non la cerca.
Ermione, di fronte alla strage compiuta da Oreste, resta muta, disarmata. Ha ottenuto ciò che non voleva veramente. Spirei arriva a questa immagine potente costruendo il suo spettacolo proprio come una tragedia greca. Perché la parete bianca con le quattro porte che domina la scena disegnata da Nikolaus Webern non può non evocare la scena fissa di un teatro greco, parete di un elegante appartamento borghese, moderna skené che quando la tragedia – che anche qui avviene fuori scena – si compie mostra l’orrore con le porte che si aprono (qui sale tutta la parete) e fanno uscire i cadaveri delle vittime sacrificali.
Tutti riversi sui tavoli che prima, durante la grande scena di Ermione, i camerieri avevano apparecchiato per la festa di nozze finite in tragedia. Se un appunto si può fare a Spirei è proprio questa pantomima che rischia (tra rumori di posate e bicchieri) di distogliere l’attenzione dalla musica ieratica e drammatica di Rossini e dalla prova sublime di Angela Meade capace con la sua voce – un fiume in piena di suono che ha sempre la meglio su tutti anche quando la cantante non forza e non si esprime a pieni polmoni – di restituire tuto il trascolorare dei sentimenti di Ermione.
Il soprano americano (che a febbraio 2020 tornerà a Napoli per Norma di Bellini) ha fiati lunghissimi, sovracuti sgranati che tiene in pianissimi da brivido, ma anche centri e gravi sempre timbrati e drammatici. Pasta e tecnica americana (e anche qualche doppia mancata, ma la pronuncia si mette a posto in poco tempo), intensità e musicalità mediterranea, greca nella classica compostezza, ma anche “napoletana” (Rossini scrisse Ermione nel 1819, duecento anni fa esatti, proprio per il San Carlo) nella capacità di ammaliarti e quasi stordirti con il suo canto, tirandoti dentro nella storia e avvolgendoti con il suo mondo sonoro.
Ermione è un’opera impossibile per i tenori, ne occorrono tre, anzi quattro, rossiniani doc. Come Antonino Sirgausa, che qui è Oreste, sempre una garanzia di gusto e stile. John Irvin lo sarebbe un rossiniano doc se solo avesse più volume: tecnica e voce (e bella presenza scenica) ci sono, vanno solo consolidati e rafforzati. Gli altri tenori sono Filippo Adami (Pilade) e Cristiano Olivieri (Attalo). Fenicio è Guido Loconsolo. Puntuali, ma non sempre impeccabili. Impeccabili, invece, Gaia Petrone e Chiara Tirotta, Cleone e Cefisa, confidenti una di Ermione e l’altra di Andromaca a cui presta la sua bella voce Teresa Iervolino. Tutti vestiti, in un Novecento reinventato su modelli classici, da Giusi Giustino.
Classicità che è la cifra scelta da Alessandro De Marchi sul podio (orchestra e coro del San Carlo sono volonterosi, ma qualche aggiustamento per una maggior compattezza e nitidezza di suono occorrerebbe). Interessante la sfida (certo non nuova) di affidare Rossini a un barocchista, ma il risultato è una lettura troppo omogenea dove mancano i moti dell’anima dei personaggi. Quelli che ti fanno vedere, in musica, non solo in immagini, l’orrore al quale la tragedia ti pone di fronte. Offrendoti la possibilità, davanti ai cadaveri riversi sul tavolo, di una catarsi.
Nelle foto @Francesco Squeglia Ermione al Teatro San Carlo di Napoli