Die äeyptische Helena arriva per la prima volta alla Scala Dirige Welser-Möst, Bechtolf porta la storia negli anni ’30
Ci metti un attimo a sintonizzarti con Richard Strauss. Con il Richard Strauss di Franz Welser-Möst. Che ti investe appena si spengono le luci, ti tira dento una storia che sembra già iniziata ancora prima che la musica inizi a raccontarla. Un discorso che prosegue, perché sul palco si evoca, appunto, una storia. Quella della guerra di Troia ormai finita, con vincitori e vinti. E Menelao che torna con quello (quella) per cui era andato in guerra, la moglie Elena rapita da Paride.
L’epica, si sa, ha la potenza del racconto popolare, capace di tenere incollati alla narrazione che, come la tradizione omerica insegna, era prima di tutto tradizione orale. Fatta di schemi, trasmessa (e anche tradita) e arricchita. Arrivata, nella sua forma codificata nella scrittura sino a oggi. E qui capace di farsi melodramma, altra forma popolare, popolarissima di racconto e di arte. Il Novecento guarda alle origini. Guarda all’epica e alla sua forza, la forza della parola. Che è poi la stessa della radio dove tutto è racconto, suono. Ed eccola una radio, enorme, grande come tutto il palco del Teatro alla Scala, per far diventare immagini una parola e un suono. Quello (quelli) della Die ägyptische Helena, parole di Hugo von Hofmannsthal, suoni di Richard Strauss. L’ha scelta, la radio, il regista Seven-Eric Bechtolf che porta per la prima volta alla Scala l’opera datata 1927.
Uno spettacolo con il quale, come per la direzione di Welser-Möst ci si sintonizza subito. Perché è tutto lì, nell’idea iniziale, nel totem radiofonico che diventa, aprendosi, palazzo della maga Aithra (che si trova in Egitto, eco da ove arriva il titolo) e isola ai piedi dell’Atalante. Una conchiglia – Strauss e Hofmannsthal giocano subito la carta della favola – racconta il naufragio della nave di Menelao, lo ha voluto la maga Aithra per sottrarre Elena all’ira del marito che ha giurato d ucciderla. L’epica si mischia all’immaginazione nel racconto di Strauss al quale Bechtolf prova a dare una parvenza di realismo (non rinunciando, certo, al simbolismo con la grande radio che domina la scena di Julian Crouch) ambientando le vicende all’epoca in cui Strauss scrisse il suo melodramma.
Così il déco è la cifra visiva che domina la scena e si moltiplica nei costumi (li firma Mark Bouman), la storia irrompe con filmati che sovrappongono la mitologia della Guerra di Troia all’inutile stage della Prima guerra mondiale. Denuncia dell’insensatezza di qualsiasi guerra. Che resta, però, isolata anella lettura di Bechtolf che non scava nel fondo di un libretto, è vero, astruso: epica e fantasia si confondono, tragedia e dramma borghese convivono in una trama sghemba e, forse anche per questo, comunque affascinante. Il regista preferisce l’estetica all’etica (ma un po’ del mistero e della magia che la musica evoca e suggerisce si perdono nella lettura simbolista-borghese), mette in campo un’idea (interessante perché rende visibile il contesto storico in cui Strauss ha scritto l’Helena), ma non cerca di capire chi oggi potrebbero essere Elena e Menelao.
Impresa, forse impossibile vista la natura stessa della partitura. Che è pura esperienza estetica, mix folle di alto e basso, di tragico e grottesco, di Wagner e musical da assaporare sena troppe domande. Non ci sono le grandi domande sul male di Elektra, non c’è la malinconia del tempo che passa del Rosenkavalier, non c’è la sensualità corrotta di Salome. O forse, in trasparenza, c’è tutto questo. Come suggerisce la lettura dal podio di Welser-Möst, alla sua prova più convincente alla Scala. Il direttore trascina l’orchestra della Scala (il coro di Bruno Casoni è in buca e nei palchi di proscenio, voce che viene da lontano, dalla radio, appunto) capace di creare un suono corposo e denso, wagneriano negli strappi continui e nelle grandi arcate eroiche, ma che sa farsi poetico e malinconico, straussiano e impressionista.
Doppia natura che si ritrova anche nelle voci. Su tutte trionfa quella di Andreas Schager, Menelao, heldentenor dotato di squillo e acuti, un fiume in piena di suono che attraversa senza problemi il muro dell’orchestra anche nei momenti più concitati. Strada che percorre anche Ricarda Merbeth, Helena che fa il verso alle dive di inizio secolo, chioma bionda, vestiti a strascico, scale da scendere come nell’avanspettacolo. Eva Mei, con i capelli neri e bianchi alla Crudelia Demon, è la maga Aithra, belcantista alla maniera di Strauss. Efficace come Attilio Glaser, musicalissimo Da-ud che vince sul padre Altair, un poco convincente Thomas Hampson. Claudia Huckleè la conchiglia che, nella lettura di Bechtolf diventa un’attrice radiofonica che via etere racconta la storia di Elena e Menelao. E della figlia (interpretata da Caterina Maria Sala) Ermione la cui storia in una sorta di serie tv (qui però tutta in musica) prosegue sul palco del Teatro San Carlo di Napoli dove, in contemporanea con Milano e in una sorta di dittico a distanza che va indietro nel tempo, va in scena (altra rarità) Ermione di Gioachino Rossini.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Die Ägyptische Helena