Al Teatro alla Scala il regista Robert Carsen rilegge Händel portando (con ironia) i romani ai tempi della Guerra del Golfo Antonini dirige i controtenori Mehta, Jaroussky e Dumaux Danielle De Niese grande Cleopatra tra cinema e musical
L’Egitto di Cleopatra non è poi così lontano. Non geograficamente certo: dall’Italia bastano tre ore di aereo. Non è lontano culturalmente. Perché forse i signori della Apple progettando l’iPad hanno pensato alle tavolette con i geroglifici. Sorridi vedendoli – i tablet – in camera di Cleopatra dove la regina, fingendosi Lidia, aspetta Giulio Cesare per sedurlo. Basta un clic al telecomando e la luce si spegne, potere della domotica controllata, appunto, con un tablet. Succede sul palco del Teatro alla Scala dove va in scena un Giulio Cesare di Georg Friedrich Händel ai tempi della Guerra del Golfo. Ai tempi della tecnologia e del potere economico (questo in realtà non ha tempo nel senso che fa e farà sempre gola) che governa il mondo. Perché l’imperatore, vestito in mimetica e a bordo di una Jeep, combatte, mitra in pugno, per il petrolio. Cede alla seduzione di Cleopatra per una ragione politica, innanzitutto, farle firmare l’accordo che vedrà i due paesi varare un oleodotto pronto a portare l’oro nero in Occidente e il denaro in Medioriente. Poi, forse, arriverà anche l’amore per la regina d’Egitto che veste all’occidentale, un tailleur di velluto rosa, stile anni Novanta, che qualche boutique del Cairo potrebbe esporre oggi.
Qualcosa forse non torna nella vicenda della campagna in Egitto di Giulio Cesare raccontata così. La vicenda di Cesare che nel 48 a.C. arriva ad Alessandria dopo aver sconfitto Pompeo; Pompeo ucciso da Tolomeo – che con Cleopatra regge l’Egitto – per ingraziarsi il vincitore, ma attirandosi l’ira di Cornelia e Sesto, moglie e figlio del defunto che giurano vendetta (e alla fine l’avranno). E se Tolomeo vuole Cornelia, Cleopatra ambisce a Cesare. Intrighi per il potere, tradimenti incrociati portano all’uccisione di Tolomeo da parte di Sesto e al lieto fine con l’amore tra Cesare e Cleopatra.
Vicenda raccontata da Händel in un’opera kolossal (che, seppur parecchio sforbiciata, in questa edizione scaligera dura pur sempre tre ore e 45 minuti) nella quale non c’è, certo, la fedeltà ai fatti e la ricerca storiografica sulle fonti – ma d’altra parte non era questo che interessava al compositore tedesco: Händel non mette un sapor mediorientale nella sua musica, dove non senti l’Egitto e il deserto, dove non avverti il Nilo che scorre e il mistero della terra dei faraoni. Mette piuttosto il racconto di sentimenti universali (ecco perché la musica non ha una connotazione folkloristica) che vanno dall’amore al desiderio di vendetta, dalla sete di potere all’affetto filiale. Che era (ed è) poi l’essenza del gioco barocco di raccontare attraverso storie pop (il mito e la leggenda) tutti i colori dell’anima dell’uomo. Al di fuori del tempo.
Ecco allora che nella lirica, il luogo della fantasia in musica, si può inventarsi di tutto. Come capita al Teatro alla Scala dove è il regista Robert Carsen a far saltare (intelligentemente e mai prevaricando la musica) qualche coordinata storica nel Giulio Cesare in Egitto di Händel. Che doveva essere la prima tappa del progetto che avrebbe riportato a Milano Cecilia Bartoli che poi si è defilata per via del mancato rinnovo di Alexander Pereira come sovrintendente: cancellato il nome della diva in locandina è rimasto il progetto, validissimo e con una nuova stella, non meno luccicante della Bartoli, anzi, Danielle De Niese, cantante vocalmente seducente e scenicamente strepitosa. A lei Carsen fa fare il bagno nel latte d’asina e cantare Da tempeste il legno infranto avvolta in un telo bianco che alla fine (maliziosamente) cade. Attrice dal piglio e dall’intensità cinematografica Danielle De Niese, tanto che la scena della seduzione è un omaggio al cinema – arte che affascina e seduce, da sempre – con Cleopatra che appare sul grande schermo sul quale si sono viste le Cleopatre di Claudette Colbert, Vivien Leigh e Liz Taylor, esce dalla pellicola (e pensi a La rosa purpurea del Cairo di Woody Allen) e corteggia Cesare in un numero da musical della Hollywood dei tempi d’oro.
Idea, quella di raccontare il Giulio Cesare come un kolossal del genere peplum che già Luca Ronconi aveva messo in campo puntando su un racconto più ironico che drammatico. La stessa cifra scelta da Carsen che si è inventato una uno spettacolo che porta le vicende di Cesare e Cleopatra in piena Guerra del Golfo (diremmo più la seconda, quella dal 2003 al 2011, visto il moltiplicarsi in scena dei cellulari) che inizia come un reportage di guerra con Cesare che arriva in Egitto per portare (con le armi) la pace (le gip e le reti metalliche richiamano alla mente la Madre Courage di Brecht che Carsen ha messo in scena al Piccolo) e che finisce come una diretta da canale satellitare all news con il live dell’inaugurazione dell’oleodotto che sancisce la pace (economica) tra Egitto e Roma. In mezzo un racconto che ha il sapore di una critica sociale al nostro mondo (il potere mosso solo dagli interessi economici) fatta, però, con leggerezza e con uno sguardo ironico (spesso il pubblico ride e ride in qualche modo di sé) capace di smascherare vizi e tic di un mondo che è quello che quotidianamente ci raccontano giornali e tv.
C’è il Carsen rassicurante (e vincente) di sempre, che sa raccontare una storia attualizzandola con intelligenza, nel Giulio Cesare che scorre quasi a ritmo di musical (ma non sempre le coreografie di Rebecca Howell sono efficaci o pertinenti) ambientato da Gideon Davey in un Egitto pacchianamente eccessivo e dichiaratamente finto, con geroglifici che impugnano il kalashnikov o il ciak, militari che si allenano in una palestra (il serraglio dove viene tenuta prigioniera Cornelia costretta a fare da donna delle pulizie), vertici diplomatici tra Cesare e Tolomeo con gli egiziani che offrono angurie e tuniche e i romani palloni da calcio e giacche firmate Fendi. Connessioni sempre intriganti e riuscite tra il passato e il presente quelle che mette in campo Carsen in uno spettacolo leggero (forse un maggior scavo psicologico in alcuni tratti sarebbe stato interessante), sempre in sintonia con la musica di Händel che il regista non forza mai: assecondando la costruzione barocca della partitura, Carsen propone uno schema fisso con la prima parte delle arie in palcoscenico e la ripresa in proscenio davanti a un siparietto che consente di cambiare scenografia senza interrompere il flusso (cinematografico, appunto) del racconto.
La musica non fa da semplice colonna sonora. Anzi. È motore pulsante della serata. Perché la scommessa vinta di questo Giulio Cesare in Egitto è innanzitutto sul fronte musicale affidato alla bacchetta di Giovanni Antonini alla guida dei musicisti scaligeri che suonano su strumenti storici: una lettura sempre in stile, capace di restituire tutti i colori e i sentimenti che Händel affida ai personaggi. Antonini ottiene un suono magnifico, antico nei colori, modernissimo nelle intenzioni, profondo nel raccontare il trascolorare dei sentimenti dei personaggi. Danielle De Niese nei panni di Cleopatra è capace con tecnica e cuore di catturare l’attenzione per la verità e l’intensità che mette nel suo recitar cantando. Quattro i controtenori scritturati dalla Scala per i ruoli che originariamente erano affidati ai castrati: Bejun Mehta è un Cesare intenso ed emozionante, personaggio che il controtenore di origine indiana costruisce tutto in crescendo dosando la tecnica per rendere sempre credibile il suo cantare; Christophe Dumaux, il migliore e il più in stile, è Tolomeo, uomo di potere e di azione che fraseggia magnificamente e fa del suo canto un impasto ammaliante con la musica; Philippe Jaroussky è Sesto, perfetto nei passaggi lirici e patetici, meno efficace nelle arie d’ira e di furia; Luigi Schifano è un puntuale Nireno. Tutti specialisti del barocco nel cast perfetto messo insieme da Antonini e dalla Scala: Sara Mingardo (Cornelia) è impeccabile stilisticamente, ma con una voce che a volte (peccato, perché il suo canto è emozione pura) si perde nell’ampiezza del palco; inappuntabili per stile e presenza scenica Renato Dolcini e Christian Senn, Curio e Achilla in mimetica. A dirci che l’Egitto di Cesare e Cleopatra (e di Händel) non è poi così lontano.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Giulio Cesare in Egitto