La rara Grande Messe des morts diretta da Antonio Pappano ha inaugurato la nuova stagione sinfonica di Santa Cecilia Viaggio inquietante e visionario nel lato oscuro dell’uomo
L’impressione è quella di un sorriso sinistro, per allontanare la paura. Un sorriso quasi nervoso che ti prende di fronte a qualcosa che non riesci a gestire, che non puoi controllare. Come la morte. Eppure non si esce dall’Auditorium con l’animo lieve. C’è un peso, un qualcosa che inquieta dopo aver fatto un viaggio negli abissi dell’uomo con le note di Hector Berlioz. Nel lato oscuro di ciascuno di noi che il compositore francese con il suo estro incontenibile, capace sempre di spiazzare e di portarti in territori che non ti aspetti, racconta nella sua musica, quasi soggiogato dal fascino del male. Un male (e dunque un lato oscuro) che è tutto dell’anima nella Grande Messe des Morts, inquietante e spettrale, ma anche illuminata dalla speranza di un Sanctus che ti porta in alto, quasi catapultandoti in un’altra dimensione, per poi farti risvegliare improvvisamente da sciabolate di suono che si conficcano nella carne. Per dire che con il dolore occorre inevitabilmente farci i conti.
Antonio Pappano ha scelto il Berlioz sghembo e visionario della Grande Messe des morts per inaugurare – l’occasione di ascoltare una partitura poco frequentata sono i centocinquant’anni della morte del compositore francese – la nuova stagione sinfonica dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia di Roma. Un Requiem che è quasi una danza macabra per esorcizzare la paura della morte, un fiume in piena di musica che ti arriva addosso e che non può lasciare indifferenti. Perché racconta lo smarrimento che di fronte alla fine ti prende, gettandoti nello sconforto se non nella paura, facendoti sudare freddo al pensiero che un giorno toccherà anche a te. Ecco allora il sorriso beffardo, il ghigno per allontanare con una risata quella paura. Lo senti nella musica di Berlioz solenne come in una visone apocalittica, come in un affresco a tinte forti, ma a tratti anche leggera, danzante, frivola verrebbe quasi da dire sentendo ritmi e forme di cui il compositore francese riveste le parole della liturgia.
Parole latine, solenni che Berlioz scompone e ricompone in un racconto che mostra l’altro lato della morte, che prima dipinge il sentimento e poi lo trasfigura, lo ribalta, lo esorcizza provando a prendersene gioco. Orchestra poderosa (solo i timpani sono sedici e l’Accademia sfoggia tutte le sue – impeccabili – prime parti dal primo violino di Carlo Maria Parazzoli al corno di Alessio Allegrini), doppio coro (accanto a quello di Santa Cecilia – diretto per la prima volta da Piero Monti – è schierato quello del Teatro San Carlo di Napoli preparato da Gea Garatti Ansini), quattro gruppi di ottoni sulle gradinate (i fiati sono quelli della banda della Polizia di Stato), la voce del tenore Javier Camarena (appare nel Sanctus e sembra provenire da un’altra dimensione, cristallino e siderale negli acuti che raggiunge con incredibile naturalezza) per un muro di suono governato a meraviglia da Pappano (nonostante qualche problema di intonazione del coro nei pianissimi). Dove ti aspetti un fortissimo ecco un Dies Irae quasi sussurrato, quando il testo chiede introspezione ecco il ritmo vertiginoso del Lacrymosa.
Pappano affonda le mani in questo magma sonoro, riesce a non farlo diventare mai frastuono. Ha la bacchetta, ma spesso la mette da parte per dirigere a mani nude. È musica sacra – che spesso si dirige proprio senza bacchetta – certo, forse difficile da eseguire all’interno di una liturgia (Berlioz la scrisse nel 1837 per la cattedrale di Saint Lius des Invalides) e non solo per l’organico sterminato che richiede: Berlioz piega il testo latino (tagli alcune strofe della sequenza, nel Sanctus omette completamente il Bendictus) ad una sua visione della sacralità, immaginifica e vertiginosa nel dipingere a tinte forti, quasi espressioniste (quanto Novecento si prefigura già nella partitura) la paura della morte. Anche la domanda di senso che prende l’uomo di fronte al dolore. Pappano la rimanda allo spettatore in un’immediatezza disarmante e assecondando la visionarietà sinistra di Berlioz, scarnifica le note restituendole in un’asciutta essenzialità che inquieta e che non può lasciare indifferenti.
Articolo pubblicato in parte sul quotidiano Avvenire del 12 ottobre 2019
Nelle foto la Grande Messe des Mortes di Hector Berlioz a Santa Cecilia