Rilettura superficiale all’Opera di Roma del regista britannico che rinuncia a indagare su chi è oggi il personaggio di Mozart Ottime le prove di Arduini, Gatell e Jicia. Dirige Rhorer
Non c’è stata replica del Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart con la regia di Graham Vick al Teatro dell’Opera di Roma in cui non ci siano state contestazioni allo spettacolo. Contestazioni che, solitamente, “salutano” il regista alla prima. Con Vick, ci scherza su lui stesso, sono spesso all’ordine del giorno. Ma fa un certo effetto sentire continuamente fischi e richieste di «Vogliamo il regista!» lanciate a metà di una replica qualsiasi da un pubblico arrabbiatissimo per come è stata raccontata la storia del «dissoluto punito», come recita il sottotitolo del dramma giocoso scritto da Mozart su libretto di Lorenzo Da Ponte.
E proprio la cosiddetta trilogia Mozart-Da Ponte – quella che raccoglie tre capolavori assoluti come Così fan tutte, Le nozze di Fiagro e, appunto, Don Giovanni – è stato il progetto/sfida che l’Opera di Roma ha proposto al regista britannico nelle ultime tre stagioni. Progetto non riuscito, sfida persa verrebbe da dire calato il sipario (che in realtà non c’era nella messinscena, sostituito da due nuvole con scritto sopra il titolo) su Don Giovanni. Una trilogia in caduta libera, partita abbastanza bene con un Così fan tutte sui banchi di un’aula scolastica – Da Ponte, d’altra parte, sceglie come sottotitolo La scuola degli amanti –, passata attraverso Nozze di Figaro testardamente incentrate su un proverbio inglese – Elephant in the room – che poco si adattava alla storia e alla sua rilettura trash nell’era del MeToo, approdata al copia e incolla di un Don Giovanni senza idee e fatto – questa l’impressione di fronte a uno spettacolo che sembra mettere una a fianco all’altra cose a caso (alcune anche tecnicamente ben riuscite) – con la mano sinistra. Copia e incolla di precedenti Don Giovanni (con quello romano Vick arriva a quota sei allestimenti del capolavoro mozartiano), ma anche di altri spettacoli dello stesso regista – l’orgia che chiude il primo atto è identica al sogno/incubo del secondo atto della Tote Stadt messa in scena a maggio alla Scala.
Qualcosa, forse, non va nella vena creativa di Vick. Si deve essere – per forza – inceppato qualche meccanismo. Troppo lavoro? Troppi spettacoli uno dopo l’altro senza il tempo necessario per meditare su un testo e far decantare le idee? Perché non ci si riesce a spiegare l’aridità creativa di un Don Giovanni simile, ma nemmeno la non compiutezza di alcuni tra gli ultimi spettacoli del regista britannico. Alcuni, certo, più riusciti di altri, come la Tote Stadt scaligera o la Semiramide di Pesaro, ma pur sempre con qualche cosa che non torna e che non ti fa riconoscere il genio di un regista che ha abituato il pubblico a riletture radicali, ma sempre sulla musica e, soprattutto, pensate e meditate. Incarnate nel presente e capaci di dire, con l’arte, qualcosa del nostro mondo.
In Don Giovanni questo manca completamente: è vero, il personaggio uscito dalla fantasia di Tirso de Molina, raccontato da Moliere e messo in musica da Mozrat (e Da Ponte), è sfuggente. Ma Vick non prova nemmeno a dire chi è secondo lui oggi il libertino. Lo fa opaco, grigio come il vestito che indossa (simile, anzi identico, a quello del servo Leporello, abiti disegnati come tutti i costumi da Anna Bonomelli). Grigio come il mondo che lo circonda: la scenografia minimalista (a firmarla Samal Blak) è una pedana di legno che a volte si inclina (ma anche qui, non si capisce bene il perché, la ragione drammaturgica del movimento) sulla quale c’è un albero rinsecchito (evoca Aspettando Godot di Beckett?); e poi un telo di sfondo (peraltro non ben tirato e con pieghe a vista) su cui c’è una grande nuvola. Che minaccia pioggia. Che puntuale (e scontata) arriva quando Leporello apre l’ombrello nella sua sortita Notte e giorno faticar.
Il commendatore è un uomo anziano con girello, mentre Don Ottavio ha una stampella – perché Juan Francisco Gatell si è infortunato in prova, ma tutto sommato ci sta anche bene. Donna Elvira è vestita da suora (anche per lei il colore è il grigio), ma la scelta non ha nulla di originale (Vick l’aveva già messa in altri suoi Don Giovanni); sempre Elvira alla fine si scopre innamorata di Zerlina e fugge (amoreggiando) con lei lasciando Masetto tra le braccia (amore omosessuale anche questo) di Leporello e anche qui non c’è nulla di scandaloso, piuttosto di inutile (e a tratti di comico) perché non aggiunge niente alla compiutezza della storia. Donna Anna dopo la morte del padre si trasforma in una clochard; il Commendatore nella scena del cimitero si scava da solo (e dopo morte) da solo la fossa mentre sulla nuvola sfondo appare il volto dell’uomo della Sindone. Perché? E la statua del commendatore che va a cena con Don Giovanni è il braccio di Dio nella Creazione di Adamo della Cappella Sistina (grande come l’intero palcoscenico) alla quale il libertino (che non precipita all’inferno) stacca un dito che Masetto alla fine si metterà sul ventre simulando un enorme fallo. Perché?
Ecco quello che manca, un perché, una ragione a suggestioni, idee, visioni che non tornano con il libretto, ma soprattutto che non (ci) raccontano, provando a farci riflettere, chi potrebbe essere oggi Don Giovanni. Vick preferisce fermarsi in superficie, optare per una ideologizzazione del racconto (la critica alla Chiesa non manca, ma a tratti risulta sterile e ingiustificata) perseguendo quelli che appaiono tormentoni piuttosto che riflessioni sulla vita e sul nostro presente. Eppure il mestiere Vick ce l’ha, realizza cose tecnicamente impeccabili come la scena della cena del secondo atto, tragicomica e capace di dare un significato completamente diverso (ma plausibilissimo) a parole sentite (e viste diventare teatro) decine e decine di volte. Peccato, forse bastava crederci di più. Come ha fatto il cast, ottimo e con punte di eccellenza, sicuramente il migliore messo in campo dall’Opera nei tre capitoli della Trilogia.
Alessio Arduini è un Don Giovanni musicalissimo e misurato, non eccede mai, scolpisce la parola e riveste di significato ogni singola nota. La fa diventare teatro come Vito Priante, Leporello mai inutilmente comico, ma sempre tragicamente vero. Donna Anna ha l’affascinante fragilità, ma anche la risolutezza di Maria Grazia Schiavo, Donna Elvira è una risoluta Salome Jicia, petulante al punto giusto (anche l’abito da suora aiuta), seducente (seppur in abito conventuale) scenicamente e vocalmente. Peccato non abbia potuto misurarsi con il Mi tradì quell’alma ingrata. Perché sul leggio Jérémie Rhorer (che dirige con bel passo, a volte rischiando di dare troppo corpo al suono dell’orchestra – quella dll’Opera è affidabile e puntuale nel rispondere al gesto del direttore) ha messo l’edizione di Praga (ma c’è chi dice che sia stata una scelta del regista), alla quale manca anche il Dalla sua pace di Don Ottavio. Che è un super Juan Francisco Gatell, eroico nell’andare in scena con una gamba fratturata, ma soprattutto impareggiabile nella tecnica, nel gusto, nella musicalità, nella bellezza di suono che offre a Don Ottavio, capace di emozionare con un perfetto Il mio tesoro intanto. Vertice emotivo insieme alla Serenata cesellata da Arduini e al Vedrai carino di Marianne Croux costretta, invece, a cantare a quattro zampe il Batti batti o bel Masetto. Masetto che è un puntuale Emanuele Cordaro, così come Antonio Di Matteo nei panni del Commendatore.
E a proposito di libertino… nella prossima stagione, a ottobre del 2020, Vick firmerà la regia del Rake’s progress – detto in italiano La carriera di un libertino – di Igoir Stravinskij affidato alla bacchetta di Daniele Gatti.
Nella foto @Yasuko Kageyama Don Giovanni al Teatro dell’Opera di Roma