Diario Verdiano. 4
A Parma radicale e riuscita rilettura dell’opera verdiana ambientata nel 2046 su una nave tra tiranni in formato tv Protagonisti Amartuvshin Enkhbat e Saioa Hernandez
Ci sono le stroncature preventive, quelle dei loggionisti – in questo caso sono quelli di Parma, ma anche a Milano non scherzano in quanto a supponenza che genera fastidio – che alla notizia fatta uscire da qualcuno durante le prove che in scena non ci saranno giardini pensili e idoli infranti si organizzano con fischietti e pensano alle frasi che butteranno là insieme ai buu per contestare il regista (i registi) di turno. Giardini pensili, di Babilonia naturalmente, e idolo infranto, quello di Belo, perché si parla di Nabucco. Quello che ha chiuso la quaterna delle opere dell’edizione 2019 del Festival Verdi, di Parma appunto. Ma potrebbe essere l’antro di Ulrica senza falò e porte squinternate se pensiamo a Un ballo in maschera: quello ideato nel 2013 da Damiano Michieletto per la Scala venne stroncato alla prima dai loggionisti che da giorni si preparavano – dichiarandolo apertamente anche al tg – a fischiare perché «il regista non fa quello che c’è scritto nel libretto».
Si sa che nei piani alti del teatro d’opera, di qualsiasi teatro intendiamoci, ma specie di quelli italiani, si annidano presunti esperti (ma che tali non sono, basta parlarci qualche minuto per capire che il loggionista medio è la traduzione lirica dell’ultrà calcistico della curva sud degli stadi, in cerca di qualche minuto di protagonismo o di rassicurazioni nel vedere quello che ha sempre visto – perché pensare fa paura) che si sentono depositari di una tradizione che, per definizione, essendo arte appartiene a tutti. E si sentono in dovere questi signori (arrogandosene il diritto) di contestare chi non la vede come loro. Mettendo in campo (spesso) un’aggiunta di maleducazione – e di arroganza nella pretesa di gestire un potere tenendo per i capelli il teatro in un clima da pseudo terrore – non indifferente.
Ma ci sono anche – mettiamola così – le ovazioni preventive, le certezze di chi, appassionato di riletture moderne, va a teatro a vedere uno spettacolo sapendo già che «sarà un capolavoro». E queste certezze non sono da meno delle stroncature preventive di chi già sa. Cosa che – seppur in una prospettiva diversa, perché frutto quantomeno di un’apertura mentale e culturale – imparenta chi si siede in platea con questo atteggiamento agli ultrà del loggione. Perché uno spettacolo si fischia o si applaude alla fine. Dopo averlo visto. E con l’onestà intellettuale – in platea e in loggione, magari correndo il rischio di trovare anche qualche sorpresa inaspettata – di mettersi in ascolto della musica e delle immagini che vivono e palpitano nell’hic et nunc dello spettacolo, irripetibile e pezzo di arte unico perché mai uguale a se stesso. Onestà che deve essere il criterio da chiedere a chi quell’arte la rende viva. Perché la superficialità e l’approssimazione, la presa in giro del pubblico (quante regie fotocopia, quante esecuzioni senza un pensiero… oltre che senza prove!) sono ciò che svilisce l’arte e rischia di tenere lontano la gente dal pensiero critico sul mondo che il teatro e la musica possono (devono) ancora offrire.
Lunga, lunghissima premessa che inquadra il clima di terrore che ha accompagnato il debutto al Festival Verdi di Parma del Nabucco firmato da Stefano Ricci e Gianni Forte. Spettacolo nel quale l’onestà intellettuale c’è. Quando piomba il buio sul cadavere di Abigaille, che penzola appesa al cappio per interposta persona – chi ha impiccato la donna che ha tirato la leva per spalancare la botola? La sua parte nera, la sua parte anonima, vestita come tutti i sudditi che il regime appiattisce e ammutolisce in una lobotomizzazione di massa (già evidente nel vestito) le ricchezza delle differenze? Immagine potente che chiude la rilettura radicale proposta dai due artisti nati e cresciuti nel teatro di ricerca, passati attraverso la tv, approdati alla lirica e ora pronti a tornare sul piccolo schermo, con un programma tra teatro e realtà per Rai Tre. Rilettura – contestata, ma anche esaltata, preventivamente – che ha innanzitutto il pregio di liberare Nabucco non solo dall’iconografia babilonese, ma soprattutto dalle innumerevoli riletture (tutte uguali) che troppo semplicisticamente trasportano le vicende del sovrano vissuto seicento anni prima di Cristo nell’Europa della Shoah. E dato che la riflessione che Verdi fa sul potere non ha tempo – vale per la Venezia dei dogi de I due Foscari e per la Babilonia di Nabucodonosor – Ricci e Forte proiettano Nabucco nel 2046 ambientandolo in una nave/bunker dove un potere che affida tutto all’immagine (Nabucco sembra Kim Jong Un, complice anche le origini mongole del baritono, e Abigaille è una star della tv, conduttrice perennemente in detta di una sorta di Grande fratello della politica che legittima se stessa) opprime un’umanità fatta di relitti di uomini che arrivano in scena con i giubbotti salvagente arancioni che oggi indossano i migranti. Spogliati di questa ancora di salvezza, schedati, ingabbiati da camicie di forza che li rendono massa.
Immagine potente che apre lo spettacolo e ti dà subito un pugno nello stomaco. Ma siamo solo all’inizio del viaggio negli abissi dell’umanità – la nave disegnata dallo scenografo Nicolas Bovey potrebbe benissimo essere un sommergibile o una moderna Zattera della Medusa di Géricault – che Ricci e Forte (loro il progetto creativo, regia di Stefano Ricci) propongono secondo il loro stile, prendere o lasciare. Stile pop, ma sporcato di dolore, di una realtà che fa prepotentemente irruzione non con una semplice attualizzazione, ma con un racconto che evoca, suggerisce, più che mostrare chiaramente. Chiedendo, quindi, di pensare. Alto e basso si mischiano in una raffinata composizione visiva ed estetica che affida tutta al pensiero (niente esteriortià fine a se stessa) la forza iconoclasta (fatta di brandelli di cibo e docce di vernice) della prosa, quella di Troia’s discount o di Macadamia nut brittle. Riferimenti ad una quotidianità da reality (l’albero di Natale davanti al quale Abigaille elargisce regali e sorrisi a favore di telecamera), da social (i volti del potere sorvegliano tutti sempre dagli schermi) che omologa tutto dietro una parvenza di pluralismo. Richiami all’arte come negli oggetti accumulati e imballati dal potere davanti ai quali il coro intona il Va’ pensiero: ingabbiare la cultura è ingabbiare la libertà dicono Ricci e Forte che, tra il primo e il secondo atto, mettono in scena una messa all’indice dei libri proibiti, distrutti in un tritacarte. E che tra il terzo e il quarto raccontano, con i loro bravissimi performer (che danno corpo alle coreografie di Marta Bevilacqua), un’umanità che annega (basta un filo azzurro teso nel vuoto a evocare il mare) tra le onde, come i migranti, ma anche nell’egoismo di chi non sa guardare al mondo e agli uomini con uno sguardo di compassione.
Immagini forti. Drammaturgia del sentimento, quella messa in campo anche correndo il rischio di raccontare una storia forse non sempre in sincro con il libretto, ma sovrabbondante di spunti di riflessione. Sempre sulla musica perché ogni movimento, anche il più piccolo, è modellato sulle note. Armonico (o disarmonico laddove i colori sono cupi e tragici) con quello che si sente nella direzione di Francesco Ivan Ciampa che offre una lettura tutta in crescendo dell’opera: parte con il Verdi ruspante della giovinezza e approda a momenti di bellezza di suono e intenzioni grazie alla bella risposta della Filarmonica Toscanini e del coro del Regio di Martino Faggiani, puntuale in ogni intervento, intenso e commovente nel Va’ pensiero. Nabucco ha il fiume di voce di Amartuvshin Enkhbat, baritono mongolo che ha una dizione italiana perfetta, una musicalità che coinvolge e la capacità di entrare, con la sua importante presenza scenica, nella lettura di Ricci e Forte. Saioa Hernandez è sempre a suo agio nella parte (impervia) di Abigaille, parte che rende tanto musicalmente (un piacere ascoltare la naturalezza del suo canto e il colore del suo timbro) quanto scenicamente (domina il palco con i suoi abiti anni Cinquanta che Gianluca Sbicca le ha cucito addosso) con tutte le sfumature di una donna forte in pubblico, ma fragilissima nel privato. Zaccaria ha la sapienza musicale di Michele Pertusi, Fenena la passione di Annalisa Stroppa, Ismaele l’irruenza tenorile di Ivan Magrì.
Tutti raccontano un’umanità che non è più capace di amare. E che Ricci e Forte sembrano condannare a un futuro senza speranza che è quello che potrebbe prospettarsi senza un sussulto di pietà, senza il desiderio civile di un riscatto. Perché è questa la sensazione nel finale antitrionfalistico che vede Nabucco impassibile di fronte al dolore di Abigaille, ma anche ai segni del cielo. Una luce livida illumina la scena facendo entrare nella nave un’aria che però sa di morte. Immagine che butta in faccia al pubblico la propria responsabilità, quella di trasformare quanto visto in un pensiero sulla realtà. Compatendo Nabucco. E in lui quanti oggi induriscono il loro viso di fronte alla sofferenza del mondo. Perché, citando Camus, ha bisogno di pietà colui che non ha compassione di nessuno.
Nelle foto @Roberto Ricci Nabucco al Regio di Parma